Obichukwuka Leandro Lyone, per gli amici, semplicemente Obi

Identificarsi, trovarsi, disidentificarsi…

ll processo di identificazione e la sua importanza in un contesto bi-culturale e bi-razziale.

PH: Obichukwuka Leandro Lyone, per gli amici, semplicemente Obi

 

 

Vorrei iniziare la stesura di questo articolo estrapolando dei frammenti da conversazioni scritte che faccio tra me e me. Espressioni estratte da una raccolta personale di saggi bizzarri che scrivo per diletto e per disciplina, per cristallizzare dei concetti interiori che sfuggono come l’aria. Come quando il giorno prima di un’interrogazione si fa un check di quello che si è appreso ripetendo tra se e se quello che si vorrà dire. Io faccio lo stesso su carta per quello che vorrei imparare.

Prima di iniziare però, vorrei fare due premesse.

La prima è che queste espressioni/conversazioni sono quasi completamente metaforiche.

La seconda, che è un po’ dogmatica, è che “le culture sono dei vestiti”.

 

Shadi Yousefian – Social identity

 

Quest’ultimo è un dogma che è necessario introdurre per “comprendere” parte della conversazione. Bisogna accettarlo solo per un breve frangente, o altrimenti, per “comprendere”, servirebbe l’integrazione del testo completo (cosa che sconsiglio se non si vuole cadere in un sonno profondo).

 

Dunque:

 

“Le culture sono dei vestiti e purtroppo noi tutti siamo un po’ prigionieri di questi vestiti[…]”

 

“I mono-culturali nascono che al primo contatto con lossigeno gli viene indossato il giubbotto, o la camicia, o la canotta, sempre a seconda del luogo e del tempo in cui si nasce […]”

 

“Per il bi-culturale invece, la storia è un podiversa. Egli nasce già con due cambi: un giubbotto ed una camicia.
Già dalla nascita, questa condizione ingrassa quegl
ingranaggi nel meccanismo dellIntelletto, che solitamente, col passare del tempo, si arrugginiscono. Fin dai primi anni di esperienza, il meccanismo va in funzione processando una fumosa concettualizzazione della possibilità di cambiarsi i vestiti. Se, per i suoi primi anni di vita, il soggetto in questione fosse lasciato nudo e/o crescesse tra individui dallabbigliamento variegato, senzaltro il seguire del processo cognitivo lo porterebbe ad avere un gran successo nel trovare risposte alle questioni dellidentità.
Ma questo avviene molto raramente. La verità è che nella stragrande maggioranza dei casi (come nel caso dei mono-culturali), i soggetti che nascono con due cambi, crescono in ambienti dove tutti indossano il giubbotto o la camicia, e di conseguenza, in mancanza della nozione del guardaroba (o in compagnia del principino dell
ignoranza), questi cadono nella trappola della scelta.”

 

“Qual’è questa scelta?

La mente interroga: “Sono un giubbotto o una camicia?
E poi si contorce come una fiamma: “Ma se tutti hanno solo il giubbotto, perché ho anche una camicia? Se indosso la camicia e tolgo il giubbotto mi guardano storto e non mi considerano nella conformità. Poco cambia se indosso il giubbotto e tolgo la camicia, perché sanno che ho anche una camicia.”

L’intelletto risponde: “Se hai sia un giubbotto che una camicia, significa che devi indossare entrambi i capi! E fallo con fierezza! Sbattitene della conformità, non vedi che quella conformità è opprimente? Se t’identifichi con i tuoi vestiti, indossare un capo e rinnegare l’altro sarebbe come rinunciare ad un braccio perché hai già l’altro. Due braccia agevolano di più di uno solo, due vestiti sono una benedizione! Se tutti hanno una sola gamba e tu ne hai due, non tagliarti l’altra gamba in nome di questa conformità esteriore. Tienile entrambe, usufruisci del tuo vantaggio e inizia a correre!”

“Verso dove?” ribatte la mente.

Un alito interviene (non ci capisce da dove viene): “Verso quella distesa d’Acqua!”


O’ soggetto che possiedi già un cambio, gioisci della tua benedizione! Perché se le temperature aumentano puoi scoprirti, e se calano puoi coprirti.
Però, fermati un attimo a pensare, cos’è quel movimento che fai quando ti metti e ti togli il giubbotto o la camicia? In quella transizione, c’è un stato in cui tu sei spoglio! Fermati in quell’istante e guarda i tuoi attributi. Vedi che senza la camicia o il giubbotto sei qualcuno e sei intero?

 

Questa è la tua identità! Sei una goccia d’Acqua!”

 

 

 

Ho deciso di riportare queste espressioni per introdurre una questione che mi è molto cara, ovvero: ll processo d’identificazione e la sua importanza.

Un processo la cui percorrenza potrebbe far realizzare una visione sincera di se stessi, e che di se stessi ne comporterebbe la realizzazione. Una visione che poi potrebbe aiutare a liberarsi dall’identificazione stessa.

Il saggio si rifà ad un dogma che deve essere interpretato in chiave poetica. Qua, il termine “cultura” non ha una valenza ben delineata, è piuttosto una tenda che copre la vista da un panorama ricco di sfumature, dettagli, sofisticazioni e contrasti. Seguendo questa “logica” (che non è molto logica), il termine “bi-culturale” deve essere assimilato come una convenzione che si riferisce in generale a tutto il mondo “BI”: bi-razziale, bi-culturale e bi-tante altre cose.

Diversamente dal saggio, in questo articolo vorrei condividere dei pensieri e delle esperienze da una posizione più definita. Questo non significa che ciò che segue sia rivolto e possa essere fruibile esclusivamente per chi vive (o ha vissuto) esperienze simili alle mie. Come vorrei che si cogliesse tra i cavilli delle metafore: le diramazioni delle esperienze possono essere molteplici, ma poi tutte le strade sono destinate a confluire per una meta comune.

One and the Same -Tamara Natalie Madden

 

Sono una persona che in rapporto ai valori della società di appartenenza si considera bi-razziale e bi-culturale. Nato e cresciuto in Italia da madre nigeriana e padre italiano.

L’essere bi-culturale non necessariamente è un sinonimico dell’essere bi-razziale. Questi due termini si accompagnano a braccetto per lunghe percorrenze, ma si separano quando devono affrontare delle situazioni specifiche.
Quella che segue è un’analisi che tenta di far scorgere le differenze e le sottigliezze tra questi termini secondo il mio punto di vista.

 

Argomentando in maniera quasi analitica, si può dire che: è bi-culturale chiunque sia (o sia stato) compartecipe (quindi attivo) in legami affettivi/fisici/di sangue, stretti con persone appartenenti ad una cultura sufficientemente distinta o distante da quella di appartenenza. Lo stesso potrebbe valere (tranne che per i legami di sangue) in relazione ad un ambiente. Per esempio, un individuo originario di un posto, che vive, fa esperienza, e stringe legami in un ambiente ben diverso da quello di origine.

Semplificando in estrema sintesi: è bi-culturale chiunque abbia assorbito nella sua esteriorità ed anche interiorità, dei valori e delle visioni “extra”.

 

Yin Xin

Azzarderei asserire che in questa definizione si potrebbe includere un numero elevato di persone “mono-culturali” (quindi inconsapevoli) che abitano questa variopinta penisola, considerando gli ascendenti storici del territorio italico ed il divario culturale che persiste tra le varie regioni.

 

La mia è un’opinione personale, priva di un sostegno dato dalla veridicità dei fatti, ma credo che quasi la totalità della popolazione italiana sia affatturata dall’illusione di ritenere che l’insieme dei suoi apparati culturali appartenga esclusivamente ad una sfera macro-culturale, che è quella occidentale.
E’ vero che il bacino del Mediterraneo ha foggiato le strutture portanti di questo “mondo occidentale”, ma penso che sia altrettanto vero che l’odierna cultura occidentale (per come maggiormente venga intesa) abbia avuto una matrice più centro/nord-europea, che più verosimilmente ha posto le sue mattonelle sopra quelle strutture portanti già esistenti. A loro tempo, quelle strutture erano state costituite grazie all’influsso di un crocevia di nozioni provenienti da terre più lontane; quindi è giusto dire che gli italiani siano occidentali, ma non è nemmeno sbagliato dire che siano anche altro.
Che poi, appunto, se dovessimo risalire per gli estremi delle ascendenze di qualsiasi popolo, questa formula potrebbe essere valida per tutti, italiani e non.

“Concretamente le culture si formano come le stalattiti nelle caverne. Caverne come quella di Platone. Materiale che si deposita su altro materiale, ecco cosa sono le stalattiti[….]

 

“[…]Forse per studiare analiticamente una cultura e magari risalire fino alla sua origine ci si dovrebbe impiegare un tempo equivalente al processo di formazione di una stalattite”

Inequivocabilmente, il termine “bi-culturale” ha la capienza di comprendere in sé una moltitudine di circostanze, ma questo aspetto non può e non deve rappresentare un pretesto per approcciarsi a questo mondo con superficialità ed approssimazione.

L’espressione “sufficientemente distinte o distanti” alludeva anticipatamente anche a questo…

Se no, peccando di approssimazione, una persona che ha un genitore di Milano e l’altro di Mantova potrebbe rivendicare la sua esperienza bi-culturale al pari di uno che è per una metà indiano e per l’altra spagnolo.

Per fare più chiarezza, mi viene utile proporre questa bi-partizione logica:
una cosa è appartenere ad una famiglia/contesto bi-culturale tra parenti/persone di culture poste sullo stesso piano di rapporto fra potere economico esercitato (con una conseguente imposizione di valori e visioni sulle altre culture) ed il bagaglio di privilegi concessi. Quindi culture inglobate in una comune sfera di macro-cultura, come quella occidentale.

Un’altra cosa è appartenere ad una/un famiglia/contesto bi-culturale tra parenti/persone che appartengono a culture che sono su due piani di rapporto diversi.

Per entrambi i casi, il fattore differenziale è l’ambiente in cui si fa esperienza, ed è proprio in questo frangente che entra in gioco anche l’aspetto razziale.

Quanto sono determinanti nell’esperienza di vita le peculiarità somatiche in relazione ad un ambiente che è permeato dai valori e dalle visioni di una determinata macro-cultura? Soprattutto se nella visione popolare di quella macro-cultura si tende ad attribuire come valido un solo ed unico modello “di razza” e di comportamento.

 

“La verità è che nella stragrande maggioranza dei casi (come nel caso dei mono-culturali), i soggetti che nascono con due cambi, crescono in ambienti dove tutti indossano il giubbotto o la camicia”

 

Cultural diversity

 

L’ essere anche bi-razziali può presentare ulteriori insidie. Per questo termine lo schema è analogo a quello già presentato.
Dissimulando le convenzioni date delle categorie generalizzate delle “razze”, è bi-razziale chiunque abbia ereditato nella sua corporeità delle informazioni genetiche appartenenti a due (o più) popoli “sufficientemente distinti e distanti”.
Come per l’aspetto culturale, non significa solamente condividere le informazioni ereditate da ambo le parti dei genitori, ma anche venire a dare origine ad un terzo aspetto, una nuova versione. Non si è un insieme contenente due elementi distinti e separati che non interagiscono, ma piuttosto due insiemi contenenti elementi distinti che si sovrappongono, formando a sua volta un nuovo insieme, contenente dei nuovi elementi.
2 + 1 = 3.
Il 3 è riconducibile sia al 2 che all’1, ma non è più ne uno ne l’altro, ha un valore diverso da entrambi.

 

Con queste peculiarità è l’ambiente che fa la differenza, perché,come avevo accennato in precedenza, determina fin dalla nascita le possibili difficoltà da affrontare, da aggiungere poi a quelle variabili che potrebbero essere date dalla scarsa consapevolezza degli affetti.

 

Funziona più o meno così:

 

Immaginatevi un pianeta matematico dove uno tra i tanti insiemi è popolato dai valori 2, e questi valori credano che l’insieme che li contiene abbia la forma di un 2 (valori e visioni di una macro-cultura). Gli abitanti 2 sanno che da qualche parte aldilà dei confini del loro insieme c’è un altro insieme a forma di 1 popolato da valori 1 che credono che il loro insieme abbia la forma di un 1. Sia i valori 2 che i valori 1 (nei loro rispettivi insiemi) non sono consapevoli del risultato che consegue dalla somma tra un valore 2 ed un valore 1, che è 3. Così, supponiamo che un valore 2 decida di emigrare nell’insieme dei valori 1. Si stanzia in quell’insieme per lungo tempo e senza accorgersene inizia ad alterare il suo valore 2, che diventa 2,1 (forma di bi-culturalità). Si innamora di una carinissima valoressa 1 e dalla loro relazione nasce un valore 3,1 (come viceversa sarebbe potuto accadere se un valore 1 fosse emigrato in un insieme di 2). Ora quel 3 (o più precisamente 3,1) è come se fosse un’anomalia nell’insieme. I valori 1, non avendo mai fatto esperienza di un valore simile prima e non riuscendo a comprenderne l’autentica valenza matematica, decidono di associarla per convenienza alla valenza del valore 2 (che è il valore che conoscono) e di considerarlo nella sua funzione matematica come tale. Si comprende bene che, nel pianeta della matematica, attribuire al 3 la valenza del 2 significherebbe ottenere sempre dei risultati errati (es. 3 x 1 = 2).

 

Dunque, il valore 3 cresce nell’insieme dei valori 1 senza comprendere la sua vera valenza intrinseca. Secondo la visione generale e convenzionale dell’insieme dei valori 1, ogni volta che il 3 si approccia a prendere parte in un’operazione matematica (relazioni sociali, educazione, ecc.), ciò che ne consegue è sempre un risultato errato; poco importa ai valori 1, ma il valore 3 percepisce la fallacia della sua valenza senza comprenderne i motivi, e questo fa crescere in sé una latente frustrazione.

 

Non voglio allungarmi troppo con questa storia, ma la frustrazione porta spesso a prendere delle scelte snaturanti. Una tra le frequenti, è la mutilazione psichica di una parte del sé.
Il valore 3, frustrato dalla visione dei valori 1, si sforza contro le leggi della matematica di cambiare non solo la valenza del suo valore, ma anche la sua forma grafica. Da 3 pretende di diventare a tutti gli effetti un 2 (o un 1), cosicché da avere una corrispondenza e sentirsi rappresentato.

 

Trasposto nella realtà del nostro pianeta (che non è fatto di sola matematica), il valore 3 viene incarnato dal soggetto bi-razziale, che (sforzandosi contro le leggi della natura) non solo pretende di identificarsi con l’aspetto culturale di un solo genitore (o di una sola sua parte in caso di genitori assenti), ma anche con l’aspetto fisico.

 

Ernest, Black and white

 

E’ da notare che la corrispondenza e la rappresentazione giocano un ruolo fondamentale, se non il più fondamentale. Fin dalla nascita, il nostro cervello si serve del suo potenziale associativo per intuire la meccanica della “realtà” materiale e sondare le possibilità pratiche per domarla, in relazione alla natura di ciascuno. In questo processo, le corrispondenze sono come i risultati esatti nel mondo della matematica e i risultati esatti sono gli unici fattori che permettono di progredire perché consolidano un certezza, sono come una mattonella poggiata che aspetta la prossima e la prossima ancora per la realizzazione di un’altra  “struttura” rispetto a quella proposta prima, che è sia il nostro approccio alla vita, che la sua esperienza. Perciò, per ogni aspetto, questi risultati sono ciò che determina il nostro indice di sicurezza, e non è forse la ricerca della sicurezza a rientrare tra i primari istinti del nostro essere umani?

Ciò che amplifica la sicurezza è la rappresentazione, ed essa è anche il primo giro di mattonelle fondanti nella “struttura” dell’esperienza di vita.

La rappresentazione è possibile grazie ad un modello di riferimento che incorpora le analogie con il nostro essere e le nostre esperienze. In questo caso, il modello è ciò che ci fa sentire associati ad una figura (o più) che ci ha preceduti e che è passata (o che sta passando) attraverso gran parte di quelle corrispondenze intuite o provate. Dunque, è ciò che ci fa sentire parte di un gruppo (piccolo o grande che sia).

Se facciamo un paragone con la metafora: il modello è ciò che assicura le fondamenta della “struttura” e permette all’individuo di seguire una strada, di andare avanti senza indugio e non guardare indietro. E’ la conferma di aver poggiato le fondamenta in modo corretto, secondo la planimetria, permettendoci di proseguire con la costruzione (anche se in verità potrebbe non essere così). Perché se così non fosse, appunto, senza quella sicurezza data dalla rappresentazione del modello, continuare con la struttura risulterebbe un azzardo, perché si avrebbe la sensazione perpetua che le calamità potrebbero buttare giù ciò che si andrebbe a costruire.

 

Nell’esperienza bi-razziale, le corrispondenze più evidenti sono riscontrabili nelle calamità, e le calamità sono gli quegli effetti scaturiti dai pregiudizi, dalle discriminazioni e delle aggressioni (sia verbali e fisiche) ad opera della collettività (popolare) dell’ambiente. Avvalersi di queste corrispondenze non può che portare alla costruzione di una struttura imprecisa ed artificiosa. Significherebbe identificarsi con le corrispondenze elaborate dal giudizio esterno e non intuite da sé, con un lavoro interno. Identificarsi solo ed esclusivamente come neri e sentirsi rappresentati solo ed esclusivamente da questo “gruppo” ne è l’esempio più lampante. In verità, ci si considera tali, perché si viene considerati come tali dal gruppo opposto a quello del “nero” (correlazione alla one drop rule)…

[e non vorrei fare intendere che trovo negativa questa concezione del sé, ma piuttosto che la trovo riduttiva e limitante].

 

Johnson Eziefula – 22 & the Maltipoo

 

Ancora non sono entrato nel merito del concetto d’identificazione, ma ho dovuto adoperare il termine “identificarsi” perché tutto il minestrone descritto rivela anticipatamente come si intraprende inconsciamente un autentico processo d’identificazione, un processo che in questo caso è un po’ malsano, ma comunque fattuale (più avanti si vedrà che si tratta di una identificazione “esteriore”).

 

Identificarsi (in questo senso) significa stabilire un termine alla costruzione della struttura ed associare il proprio essere alle fattezze della costruzione finita. Significa confinarsi in termini “sicuri” e cristallizzarsi in quei confini, assumendo la forma e le caratteristiche di quelle delimitazioni. “Io sono x, pertanto le mie visioni e le mie tendenze devono essere coerenti con le visioni e le tendenze del gruppo x”.

 

Ma cosa succede quando le delimitazioni non combaciano con la forma contenuta? (Dunque quando il soggetto rappresentato non combacia con la rappresentazione)

Succede che la forma è costretta a vivere in una condizione di disagio, almeno finché non riuscirà a straripare da quei limiti che si è imposta. I limiti determinano la stessa imposizione, e questa, assieme al disagio, determina una serie variegata ed importante di problemi psichici ed esistenziali.

Forse il problema di fondo di questo tipo di processo identificativo sta appunto nell’auto-imposizione. Per riprendere la metafora precedente: si sono poste le fondamenta in maniera errata, senza essere fedeli alla planimetria o ad altre disposizioni richieste. La struttura alla base formicola di falle, e il soggetto bi-razziale completa la sua opera vacillante rafforzandola esternamente a più non posso con espedienti inopportuni.

Nel concreto, il soggetto bi-razziale cercherà di confinarsi nelle visioni e nelle tendenze del gruppo a cui ha scelto di appartenere, convincendosi a più non posso di farne parte nello stesso modo in cui ne fanno parte anche gli altri corrisposti.

Fare diversamente potrebbe causargli un senso d’insicurezza e potrebbe far crollare la sua metaforica struttura…ma mantenere delle delimitazioni non fa altro che limitare…e come ci si potrebbe veramente realizzare se questi limiti non permettono di dispiegare la vita nelle sue molteplici dimensioni e possibilità?

E a seguire c’è un’altra domanda: se non è possibile trovare un modello/rappresentazione che incarni con precisa corrispondenza le analogie con il proprio essere e le proprie esperienze nell’ambiente più o meno stretto, dove sarebbe possibile trovarlo? Forse altrove?

Forse si, ma forse non sarebbe veramente necessario.

 

Katie So – Mixed identity

 

A questo punto, si introduce la fase successiva, che tra tutte è forse quella che mi sta più a cuore, che poi è anche quella che più si avvicina al cuore della questione e cioè: ciò che ha a che vedere con il ruolo degli affetti.

 

Quando si è bi-razziali (ma anche quando si è bi-tante altre cose) e si ha una correlazione con l’esperienza descritta fino ad ora, significa che, con ogni probabilità, le strette ascendenze che precedono questo stato d’essere (genitori e parenti) sono persone mono-razziali (o mono-tante altre cose). Ma si potrebbe avere la medesima relazione con gli affetti in generale, dunque amici, partners ed anche educatori.

 

Può succedere che queste persone “mono” non riescano a comprendere, oppure sottovalutino, quanto i problemi derivati da un malsano processo identificativo possano interferire nella psiche, la crescita e la realizzazione dei soggetti BI-. Il più delle volte si approcciano ai problemi giudicandoli in base a se stessi, ridimensionandoli attraverso la lente della loro esperienza, che nelle difficoltà di identificazione potrebbe essere stata conforme all’esperienza collettiva dell’estrazione di appartenenza (ambiente “mono”).

 

Nel concreto, prendiamo ad esempio un caso di meticciato simile al mio.

Potrebbe essere che un genitore (o qualsiasi altro affetto) nero che vive in ambiente diverso da quello di origine possa relazionarsi con l’esperienza razzista e discriminatoria del figlio (anche se con un’intensità diversa), ma che non riesca a considerare le stringhe di sicurezza, di forza e anche di una chiara visione che potrebbero derivare dal senso di rappresentazione dato da un nucleo familiare “mono-razziale” di appartenenza.

Vedrebbe le difficoltà del meticciato come dei trastulli ultronei e tenderebbe ad eclissarle perché le porterebbe in paragone con la sua esperienza, che in termini di razzismo e discriminazione potrebbe essere stata ancora più intensa, ma come potrebbe essere stata anche meno (ogni cosa dipende dall’ambiente in cui si è cresciuti). Ma comunque questo ha a che vedere solo con l’aspetto discriminatorio, mentre le difficoltà del meticciato hanno a che vedere anche con altro.

 

La stessa cosa potrebbe valere per l’altra parte, un genitore (o qualsiasi altro affetto) bianco che però vive nel suo ambiente di appartenenza.

In questo caso, oltre a che non considerare la sicurezza, la forza e la chiara visione derivate dal senso di rappresentazione dato da un nucleo familiare “mono-razziale” di appartenenza, potrebbe presuntuosamente confondere e sovrapporre la natura e l’intensità delle esperienze vissute da una parte e dall’altra, paragonando, ad esempio, delle gravose esperienze di discriminazione razziale con delle esperienze di altro genere. Questo perché l’estrazione comune, la conformità di alcuni caratteri fisici, la permanenza in un ambiente “mono” e l’identificazione con i valori e le visioni dello stesso ambiente appannano considerevolmente le facoltà di percepire ed esperire tutto ciò che è diverso dall’abitudinario, limitando assai ogni forma d’immedesimazione.

Mandy Tsung – mixed identity

 

Mi ricordo quando ero più piccolo e capitava che a scuola mi prendevano in giro per il colore della mia pelle. Già in quella tenera età, in alcuni casi, pareva che non ci fossero dei freni per l’intensità delle aggressioni verbali, che in casi più rari potevano diventare anche fisiche. Quello che percepivo era un trattamento esclusivo, che era tale per una differenza evidente tra la il mio aspetto fisico e quello degli altri bambini, un aspetto che non era possibile cambiare.
A fronte dei miei lamenti e delle mie frustrazioni, solitamente mi veniva detto qualcosa di simile a questo: “Ma si, non darci troppa importanza, capita a tutti di essere presi in giro!”

E di conseguenza mi sentivo come se avessi dovuto sopprimere i miei sentimenti, perché in fondo, al parere dei grandi, anche gli altri provavano quello che provavo io. Ma così in verità non era, non perché altri bambini della scuola non provassero dolore nell’essere presi in giro, ma perché non capitava loro di affrontare delle discriminazioni razziste, in un contesto poi dove la parte discriminata si riduceva ad una persona (o due) in rapporto alla parte “conforme/nella normalità” che erano tutti gli altri tranne te. Mi chiedevo appunto: “Ma se tutto capita a tutti, perché allora solo io (nella mia piccola realtà ovviamente) subiscoquesta forma di bullismo?!”

Per quanto vorrei, non credo sia il caso di allungarsi con altri esempi, in cui comunque il confronto alle lamentele giungeva al termine con risposte del tipo: “anche noi meridionali/padani/marziani abbiamo subito la stessa cosa”, “ma non esagerare, qua nessuno è razzista!”, “ma non ti devi offendere, è solo uno scherzo!”, “ma si, ormai è acqua passata” e “la vita va avanti”.

 

Ora, dopo aver percorso un po’ di strada lungo la via dell’identificazione, riesco a comprendere che questo tipo di risposte, in realtà, non fanno altro che mostrare una disarmante incapacità nel discernere le situazioni e mirano ad appiattire le intensità delle esperienze vissute entro una concezione di esperienza omologata, uguale per tutti. Ma se si valuta con franchezza anche la minima parte delle circostanze e delle variabili che entrano in gioco, risulta palese comprendere che le esperienze non sono uguali e non sono uguali per tutti.

Sotto la copertura di queste risposte si nasconde l’avversione per il disagio che i reclami dell’interlocutore potrebbero recare al proprio sé, ovvero anche l’incapacità di gestirlo e l’indisposizione a metabolizzarlo. Piuttosto che compiere lo sforzo di una sincera immedesimazione, si preferisce evitare di affrontare il disagio sentenziando con l’unico verdetto che l’esperienza personale può permettere di formulare, esponendo all’interlocutore delle associazioni sterili.

Si crede che si stia dando un supporto morale, ma in realtà si sta aiutando solo se stessi a fuggire da una responsabilità, o più semplicemente dal prendere coscienza di un fatto.

Freddare il disagio non aiuta a risolvere il problema, lo ingigantisce, perché è vero che “la vita va avanti”, ma mentre la vita procede apparentemente “in avanti”, i nodi di un’esperienza rimangono lì fermi nel punto in cui si sono formati, e la persona (nel suo interiore) ci rimane incastrata dentro. Quei nodi si nutrono dell’energia della persona stessa, e grazie al tempo e ad un’adeguata dose di nutrimento, riescono a raggiungere delle dimensioni importanti. Senza riconoscerne né il peso né l’influenza esercitata, incidono in ogni aspetto di vita, arrecando ulteriori difficoltà. Pertanto, quando il divario tra il punto in cui si è nella vita e il punto in cui si trovano i nodi si fa troppo ampio, diventa molto difficile potersi comprendere e, di conseguenza, anche riuscire ad intervenire.

 

Il problema di fondo, in realtà, non è la mancanza di comprensione, ma piuttosto, è l’incapacità di saper ascoltare senza pretendere di avere una risposta. Il saper essere ricettivi senza controbattere, il saper accogliere le parole solo per metabolizzarle, per darle importanza veramente.”

 

Questo, per me, è stato uno degli insegnamenti più importanti, che ricevetti tempo fa in una delle puntate di discussione che si fanno live su Clubhouse del Lounge di MetissageSangueMisto, una tra le puntate più arricchenti ed illuminanti a cui abbia partecipato.

Si era trattato il tema dell’esperienza adottiva e le analogie riscontrabili con l’esperienza bi-razziale e, giunti all’apice della discussione, l’ospite intervistata gettò luce sulle disposizioni e le attitudini più adeguate da tenere a fronte dei dubbi e delle questioni più delicate (come alcune di quelle citate in questo articolo) ed espresse ciò che io ho scritto (rielaborando il concetto con le mie parole, secondo la mia interpretazione).

 

Mi rimase particolarmente impresso ciò che la presentatrice aggiunse in seguito, e cioè che, in situazioni del genere, nel momento in cui il soggetto dovesse esprimere un suo disagio (nel suo caso si trattava di una ragazza adottata), sarebbe opportuno che dall’altra parte lo si cogliesse astenendosi da un giudizio immediato, magari rispondendo in questa maniera: “Guarda, io ti ho ascoltato/a attentamente, però in questo momento non posso comprendere al meglio come ti senti, né posso darti una risposta utile. Però, ora ne sono consapevole e ho l’opportunità di salire sulla tua barca. Possiamo affrontare il viaggio assieme e magari viaggiando troveremo delle risposte utili!

 

Questa sarebbe vera rappresentazione!

 

Non una rappresentazione data da corrispondenze esteriori e variabili come l’aspetto fisico o la considerazione e il trattamento in un determinato ambiente, ma una rappresentazione data da una corrispondenza interiore, rilevabile in un forte legame di sentimento, che viene confermata dall’intrapresa di un percorso comune e dal desiderio (o la necessità) di scoprire insieme nuove prospettive. Ci si sente rappresentati perché si ha il sentimento di viaggiare sulla stessa barca sia quando il cielo è sereno, ma anche quando sopraggiungono le intemperie. Non si viaggia su due barche e su due corsi d’acqua diversi, ove, nel momento in cui una delle due imbarcazioni dovesse trovarsi in difficoltà, l’altra le invierebbe comunicazioni a distanza su come dovrebbe sentirsi e come dovrebbe comportarsi.

Questa rappresentazione accrescerebbe una sicurezza fertile e sincera, una sicurezza che è ben diversa da quella illusoria e labile che viene determinata dall’auto-imposizione.

Con un bagaglio tale, si potrebbe rinunciare alle garanzie offerte da quella struttura (dell’esperienza di vita) che viene costruita con tanta fatica, come anche, in verità, potrebbe non sussistere proprio la necessità di avere una struttura.

Per rispondere alla domanda che precedeva il paragrafo intero, mi sento di affermare che la rappresentazione non dovrebbe essere cercata, ma che, piuttosto, potrebbe essere data da tutti in qualsiasi contesto, indipendentemente dalle differenze esteriori o le differenze determinate da ciò che è e che viene percepito all’esterno del proprio corpo: aspetto fisico, nazionalità, religione, genere, ecc. La rappresentazione esteriore è effimera e divisiva, quella interiore è vera e unisce i cuori.

 

[questa riflessione non deve essere fraintesa e sovrapposta all’idea dell’accettazione passiva. Niente mai è unidirezionale e non tutto deve essere accettato, perché non tutte le rivendicazioni coincidono con la verità/realtà. Quella che pero’ dovrebbe sempre precedere ogni confronto, da qualsiasi parte, è la predisposizione ad ascoltare sinceramente, senza pretese di giudizio e di risposta.]

 

 

Qua giungiamo alla meta dove confluiscono le acque e dove termina l’esposizione delle dinamiche pertinenti l’esperienza bi-razziale.  Da qui in avanti la rappresentazione descritta (che definirei interiore) pavimenta la via maestra per tutti i tipi di esperienze, perché, in verità, tutte le dinamiche sono pertinenti a cause comuni. Le dinamiche potrebbero manifestarsi in forme diverse, ma la cause alla radice sono della stessa natura. Per quanto si provenga da un background “mono” e se ne condividano i valori e le visioni, non si può negare che nell’interiore di ogni persona ci sia qualcosa di BI. La programmazione della “struttura” (modello-corrispondenze-rappresentazione-ascolto-sicurezza) vale per tutti e viene riprodotta in ogni ambito che riguarda le predisposizioni di vita, come per esempio: l’orientamento sessuale, la carriera che si vuole intraprendere, le materie a cui ci si appassiona, il partner che si vuole frequentare, la famiglia che si vuole costruire, i posti che si vogliono visitare, i gusti, le debolezze, le avversioni, ecc. Tutto ciò che ha che vedere con la vocazione del singolo e le sue scelte.

 

Senza degli esponenti che sono disposti a rappresentare interiormente, l’ambiente “mono” non potrà mai offrire una sincera rappresentazione per le inclinazioni di ciascuno, perciò le opzioni a disposizione sono sempre solo 2: o sopprimere qualche parte di sé per evitare i conflitti e rimanere conformati nello “standard” dell’ambiente, oppure fare una piccola “rivoluzione” e creare dei varchi in quei limiti che non permettono di guardare aldilà della propria scatola e trovare delle corrispondenze più valide, cioè quelle interiori che più sono sincere al nostro essere.

 

La rivoluzione è il processo d’identificazione, che per l’insieme di questi due termini fa pensare a qualcosa di molto complesso e sofisticato (in parte lo è) ma che in parole brevi non è altro che l’intrapresa di un’indagine approfondita di se stessi. Un viaggio che si inizia sondando l’esterno per poi volgere verso l’interno.

 

Tanto prima, avevo accennato ad una identificazione esteriore, che ritengo inevitabilmente fallibile, perché porta ad avere dei risultati che variano di valore a seconda della percezione e delle circostanze di tutto ciò che esterno al proprio essere. Sono risultati alterati ed interpretabili diversamente dalla mente, la memoria e l’intelletto di ciascuno, per il quale diventa estremamente difficile risalire fino ad un valore archetipico non alterato (sempre che ci sia). Esempio: una banconota si chiede cosa è e quale possa essere il suo valore. Una banconota rimane sempre una banconota, ma un giorno potrebbe perdere un valore e il giorno dopo acquisirne un altro, oppure, con lo stesso valore, potrebbe valere molto per un popolo e valere poco per un altro. Ma la banconota veramente che valore ha? Per qualche umano è una banconota e per qualche altro umano (o non umano) è semplicemente carta! E qual’è il valore universale della carta? Dovremmo ascoltare l’opinione del cosmo intero per speculare su qualche ipotesi.

 

 

Allo stesso modo che cosa potrebbe significare che una persona parla la lingua francese? Che è di nazionalità francese? E se è nata al di fuori dei confini della Francia? E cos’è la Francia agli occhi di una popolazione indigena che non è mai uscita dal suo territorio? Una serie di delimitazioni astratte? E si potrebbe continuare all’infinito per cercare di rispondere definitivamente a tutte le nuance possibili per trovare in inquadramento fissato che è universale (o meglio convenzionale) per tutti. Sinceramente non credo che sarebbe possibile senza dei compromessi, perché non ci sono 2 persone al mondo che sono identiche, almeno non secondo l’integrazione tra i criteri dell’esteriorità e dell’interiorità, e quindi anche della percezione.

Il processo d’identificazione non ha a che vedere soltanto con l’associazione della propria persona entro i confini di un inquadramento più o meno convenzionale, ma è soprattutto l’operazione che precede questa fase. E’ l’osservazione e poi la selezione di quei confini che sarebbero le possibilità che si conoscono. Non ci si accontenta di categorie predisposte che non rappresentano le peculiarità di tanti, ma ci si osserva attentamente con l’occhio interiore per comprendere da soli cosa si è “quasi veramente” e quali associazioni potrebbero essere le più opportune. E’ un continuo aggiustare il tiro, anche se il vero bersaglio, a mio parere, non potrebbe essere raggiunto con la verifica di associazioni o deduzioni.

 

 

L’identificazione esteriore è necessaria perché allena ad essere obiettivi, dunque

 

ad avere una visione più sincera della realtà. Si fanno degli occhi nuovi e con quegli occhi, poi, si riesce ad intuire che la risposta alla domanda di chi si è veramente non può essere offerta dalla realtà limitata e che per saperne di più bisognerebbe sbarazzarsi di tutte le constatazioni che si sono ottenute fino a quel momento.

 

“Identificarsi per disidentificarsi”

 

 

 

Disidentificarsi non per perdere un’identità, ma per perdere un’identità limitata.

Il processo giunge al punto in cui serve a buttare giù quella struttura costruita che ci limita nelle nostre visioni per permetterci di guardare ciò che c’è dentro ed intravedere l’essenza del proprio sé, senza quegli additivi aggiunti dall’esperienza e dall’ambiente.

Si potrebbe definire questa fase come l’inizio di un’identificazione interiore, ma io preferisco di gran lunga difinirla come un infinito assaggio, che non termina mai.

L’essenza di una persona non può essere contenuta e nemmeno quantificata, sarebbe come cercare di afferrare ed intrappolare l’acqua di un oceano in un pugno di carne. Si può semplicemente assaggiare e gustarne il sapore, in tutte le sue manifestazioni.

 

Il fine ultimo del processo d’identificazione è proprio questo: imparare ad assaggiarsi (e gustarsi/percepirsi). Chi si sa assaggiare poi si può realizzare, che in termini pratici significherebbe far sprigionare e manifestare l’energia dell’essenza  del sé, cioè la qualità del proprio sapore. Il processo non è il fine, ma solo un mezzo. Questa è l’importanza dell’identificazione, non come un obiettivo da raggiungere, ma come un percorso da intraprendere.

 

 

Se poi riconosci di essere una goccia d’acqua, beh, allora sappi che la tua meta deve esserne la distesa, l’oceano.

Anche se è vero che..

 “Non sei una goccia d’acqua nell’oceano, sei l’intero oceano in una goccia”. – Jalal ad-din Rumi –

 

 

 

 

 

Autore: Obichukwuka Leandro Lyone, Mixed Italo-Nigeriano, pensatore, saggista, degustatore e psiconauta. Owner di Dugiotto Blog, Métissager di primo pelo, co-moderatore degli appuntamenti MétissageSangueMisto ClubHouse del Mercoledì e Responsabile Area Giovani Métissage Lounge.

 

 

 

 

 

 

 

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