Ma se stiamo tutti parlando, alla fine chi è che ascolta davvero?

 

Sono curiosa per natura e non do mai per scontato né le cose né le persone. Ho sempre questa necessità di capire, imparare, studiare, approfondire e aggiornarmi su tutto ciò che attira il mio interesse. Passo le mie giornate a comunicare. Scrivo, parlo, preparo programmi di mentoring e le metto in pratica, dirigo un Azienda, una WebMag ed un progetto ambizioso. Tra domande e risposte, ogni giorno sono circondata di parole. Per lavoro ascolto, ascolto un sacco. Ma non è detto che questo mi abbia insegnato a capire. Ascoltare non è un esercizio automatico. Impariamo a parlare e scrivere, ma nessuno ci insegna ad ascoltare. Ad ascoltare veramente.

 

 

 

Raccolgo storie, racconto storie. Quelle degli altri, e a volte la mia. Storie normali, storie tutte differenti. Ma con un denominatore comune. Storie vere, in cui l’autenticità è la chiave delle scelte che vengono fatte, e quindi dei successi e dei fallimenti, del risultati raggiunti e di quelli ancora distanti.

 

 

Raccontare sé stessi fa sempre sentire in bilico tra il desiderio di condivisione e il rischio di suonare arroganti. E perché quello che dentro senti con chiarezza sembra annacquarsi in parole che vorresti veder maneggiare con più cura.

 

Ed arriva il momento di definire la propria ambizione, di definire il confine tra quello che faccio e quello che sono, tra il gestire gli equilibrismi tra i diversi progetti, al non perdere mai di vista la concretezza necessaria a costruire il puzzle delle cose che voglio (e che devo) fare.  Ma per farlo davvero, per ascoltare la propria autenticità, bisogna saper andare oltre. Arrivare al proprio orizzonte per poi superarlo.

 

 

I propri obiettivi e la forza di volontà necessaria a perseguirli sono troppo radicati nella nostra ambizione a tal punto da non permetterci di prestare attenzione a quello che cambia attorno e che potrebbe trasformare radicalmente la prospettiva delle cose. Vogliamo raccontare quello che siamo invece che quello che facciamo? Ricordiamoci che ognuno, con la propria sfumatura, cresciamo cercando di capire in cosa siamo bravi, credendo che sia quella la chiave per essere apprezzati. Io sono brava a fare, e così ho sempre misurato la mia capacità, il mio valore, sulla base di quello che realizzavo. Riesco a conoscere molto bene il mio fuori ed altrettanto bene il mio dentro, quel dentro che tocca, il più vicino possibile, come siamo fatti. Guardarmi dentro affrontando il rischio di scoprire anche quello che non volevo vedere.  Dare potere alla mia voce, imparando a darle lo spazio necessario, ascoltarla, e lasciare che possa parlare al mondo. Anche se non corrisponde alle aspettative che il mondo ha su di noi.

 

 

Ed ecco che si riesce a scoprire il silenzio, a farsi assordare da esso. È affascinante vedere cosa succede quando si crea un momento di silenzio. Da un po’ provo a farci caso. Quando sono concentrata, le mie frasi hanno una cadenza che appare frammentata, in cui lascio che lo spazio possa allargarsi tra una parola e l’altra. Di solito va a finire che quello che voleva essere un flusso completo viene interrotto dal mio interlocutore, che si sente in diritto, o dovere, di non lasciare troppo spazio a quel silenzio di cui siamo quasi diventati sospettosi.

 

 

 

Oggi abbiamo sempre attorno onde sonore e un sottofondo che ci ricorda che non siamo soli. Qualcuno diceva che ciò che è sonoro va oltre la forma. Non la dissolve, ma piuttosto la allarga; offre un’ampiezza, una densità, una vibrazione o un’ondulazione a cui possiamo solo tentare di avvicinarci. E se questo sottofondo non lo abbiamo lo cerchiamo, lo indossiamo. È il Secolo del Rumore, quello dove la sospensione non è contemplata. Finché diventa difficile distinguere, in tutto questo rumore, quello a cui vorremmo realmente arrivare. Perché anche ascoltare non è garanzia di capire, di distinguere uno stesso senso comune.

 

 

 

Il suono è tempo e significato. Ci colloca nello spazio, come proviamo se chiudiamo gli occhi e ci orientiamo facendo riferimento solo a ciò che percepiamo mettendoci in ascolto: quante persone abbiamo attorno, quanta distanza ci separa dagli oggetti. Ci colloca nel tempo, perché lo attraversa e lo rende concreto nel suo fluire, dal passato verso il futuro.

 

 

Si parla spesso di ascolto attivo, di attendere il proprio turno per parlare, di non interrompere, di non giudicare. Ma dobbiamo andare oltre, se vogliamo davvero capire. Tante volte sono rimasta delusa da quelle che mi sembravano promesse non mantenute, dichiarazioni eccessive che alla fine portavano a poco. “Faremo! Andremo! Ma certo!Ci ho messo parecchio tempo, a imparare.  Non era disinteresse o poca sincerità.

 

 

 

Ciascuno nelle parole mette un peso diverso, e non è semplice anche solo immaginare la differenza di senso con cui possono essere ricevute dall’altra parte. In pratica giochiamo costantemente al telefono senza fili, e nemmeno lo sappiamo. Dobbiamo essere ancora più curiosi, se vogliamo veramente capire. Dedicare tempo a chiedere il perché di una scelta, di una frase. Senza giudicare, al contrario imparando ad accogliere l’individualità di chi ci sta di fronte e provando ad avvicinarci al suo modo di esprimere la propria visione del mondo.

 

 

 

Non è semplice. Siamo abituati a interpretare e dare un nostro senso alle cose che succedono attorno a noi. È il nostro cervello che è fatto così.  Il cervello non reagisce alla realtà, piuttosto costruisce il modo in cui la percepiamo. Pensiamo di osservare il mondo, crediamo di capire. Invece quello che pensiamo è solo una di infinite ipotesi che costruiamo attraverso l’interazione di miliardi di cellule cerebrali.

 

 

Non: “Cos’è?”, ma: “A cosa assomiglia?”.

 

 

È questo il nostro capire.

 

E allora, forse, a volte, potrebbe bastare quella sospensione, da lasciare vuota senza l’ansia di riempirla immediatamente di ciò che già conosciamo. Per scoprire qualcosa che nemmeno immaginiamo.

 

 

Vi aspetto stasera, 30 Marzo, ore 21:45, su ClubHouse,  per affrontare insieme questo topic, partendo dalle vostre esperienze dirette e capendo quali sono gli strumenti più funzionali (Mai sentito parlare dell’ascolto attivo?) per mettere in atto la capacità di creare fiducia, imparare e comprendere l’altro. Proveremo anche a sfiorare la difficoltà di comprendere le radici del razzismo e le prospettive dei neri/Mixed che lo affrontano nella loro quotidianità, ascoltando ciò che hanno da dire e analizzando perché la loro rabbia e le loro ragioni fanno fatica ad essere comprese come un’autenticità che la società ha bisogno di assorbire come verità.

 

 

 

 

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