Sopravvivere al Biafra.

L'avete mai sentita raccontare dagli occhi di una bambina?

 

Come vi avevo già annunciato, la scorsa settimana si è tenuto un incontro speciale presso la King’s College a Londra dove è stato proiettato il docu-filmIn the Shadow of Biafra (2020) della produttrice Dr Louisa Uchum Egbunike e del regista Dr Nathan Richards e dove è stato dato spazio ad una profonda esplorazione e discussione del modo in cui gli scrittori creativi nigeriani del calibro di Chimamanda Ngozi Adichie, Obi Nwakanma, Nnedi Okorafor, Tochi Onyebuchi –  giusto per citarne alcuni – hanno affrontato la disarmante storia della guerra tra Nigeria e Biafra. E’ stato analizzato, da chi l’ha vissuta e da chi è sopravvissuto, il modo in cui la guerra viene ricordata, indagando, oltre sull’esperienza diretta personale, anche sul ruolo degli scrittori (la maggior parte dei presenti non era nemmeno nata in quel periodo!!) durante e dopo il conflitto e sull’eredità del trauma nella Nigeria di oggi.

 

 

 

Ripercorrere gli eventi negli anfratti della memoria, soprattutto per chi, come me, che a quel tempo era poco più di un infante, è sempre un processo doloroso e traumatico. A quell’età gli orrori dei combattimenti e l’odore della morte violenta ti rimangono impressi nella memoria come inchiostro indelebile. Ed ogni tanto sbucano nefasti in qualche incubo notturno a ricordarti che l’umanità, dalla storia, non ha imparato un emerito nulla. Se poi hai avuto la fortuna di aver avuto un padre che non si è schierato dalla parte dei mercenari Occidentali, Egiziani e Israeliani che portarono ancora maggior distruzione ed azioni subdole, ma un uomo che, per amore di una donna biafrana, sicuramente, ma anche (e soprattutto) per grande pietas umana, si è speso anima e corpo per salvare e dare dignità a migliaia di quei biafrani… beh! Il peso della responsabilità diventa davvero gravoso.

 

 

 

Avete tutti letto moltissimi libri sulla storia del Biafra e di tutto quello che ne è conseguito, ma sono stati libri scritti  dagli stessi attori principali dei combattimenti, da spettatori adulti o da persone che non lo hanno vissuto direttamente ma tramite i racconti dei loro antenati. Scommetto che moltissimi di voi ha sentito la storia di questo popolo senza voce, conosciuto solo grazie al fatto che i loro volti e i loro stomaci venivano continuamente sbattuti sui giornali di tutto il mondo durante la guerra civile o, semplicemente perché i vostri genitori vi obbligavano a mangiare e non fare i capricci per non “diventare come i bambini del Biafra”.

 

 

 

Già…. Quante volte lo avete sentito sta litania? Eppure … mentre voi lottavate con vostra madre ed il cucchiaio di fronte alla vostra bocca, io memorizzavo come fosse essere uno di quei bambini i cui volti finirono sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo o, peggio, vedere qualche testa mozzata con il cutlass più tagliente davanti ai miei occhi o qualche corpo saltare in aria per le bombe buttate durante i raid aerei o, ancora, qualche cadavere che finiva in pentola per poter sostenere interi villaggi con un po’ di carne. Sì.. certo! Orrore … ma, per chi l’ha vissuta, è la guerra. E’ quella roba là che leggiamo nei libri di storia e che ora glorificano un eroe, ora aborriscono l’insensatezza umana.

 

 

 

 

Ma voglio provare a raccontarvela attingendo alla mia memoria privata durante le incursioni, insieme a mio padre ed il suo staff, nei villaggi per caricare più gente possibile e farli uscire da quel inferno; attingendo alla memoria dei miei genitori e di tutti sopravvissuti testimoni delle gesta della mia famiglia e che ho avuto al fortuna di conoscere.

 

 

Papuz impegnato nei rastrellamenti nel distretto di Ngor Okpala (Owerri)

 

 

La mia è la storia di ciò che ho visto da bambina. Possiamo considerarla la storia della sopravvivenza in Biafra. Ci sono stati diversi resoconti della guerra scritti da uomini che l’hanno combattuta o che hanno assistito direttamente agli eventi che si sono svolti sul campo. Parlo, per esempio, del colonnello J.O.G Achuzia, che ha raccontato la sua eroicità in guerra, mentre altri, come il generale Madiebo, hanno messo in evidenza gli aspetti che ritenevano in contrasto con l’effettiva prosecuzione della guerra da parte del Biafra. Altri autori, come Frederick Forsyth, hanno descritto il Biafra come un’entità che sarebbe cresciuta fino a diventare una grande nazione se fosse sopravvissuta. Il mio racconto personale sul Biafra non parla di imprese eroiche perché non ne ho compiute. Avevo solo pochissimi anni di vita quando è iniziata la guerra e quando è finita ufficialmente, nel 1970/71 ero ancora una bambina curiosissima, sveglia, dagli occhi vivaci e dal temperamento irrequieto. Questo però è molto significativo: ho trascorso i miei primissimi anni formativi in Biafra sotto l’assedio delle truppe militari nigeriane. Il mio racconto personale parla quindi della sopravvivenza in Biafra memorizzata con gli occhi di una bambina; una bambina che ha visto altri bambini morire di fame; una bambina che ha vissuto sulla propria pelle l’assalto delle truppe nigeriane, da una parte, e la difesa di quelle biafrane, dall’altra; dei raid aerei e i loro effetti mortali; una bambina che ha visto famiglie in lutto seppellire prematuramente i propri figli e padri. L’angoscia di essere cresciuta con una visione e un’esperienza di ciò che altri bambini hanno provato e che nessuno ha mai raccontato o si è mai preoccupato di raccontare.

 

 

A scuola vi hanno insegnato che la popolazione nigeriana è composta da numerosi gruppi etnici che parlano più di 250 dialetti diversi, ma il mezzo di comunicazione principale è l’inglese. Ci sono, però, tre gruppi etnici principali nel Paese: gli Hausa, che abitano principalmente nella regione settentrionale della Nigeria, gli Yoruba nella regione occidentale e gli Igbo nella regione meridionale.

 

 

Prima del 1914, questi tre gruppi distinti e altri gruppi etnici conducevano la loro vita indipendentemente l’uno dall’altro. I padroni coloniali britannici, in quella che fu chiamata Amalgamation of Northern and Southern Protectorates (l’Amalgamazione dei Protettorati del Nord e del Sud), li riunirono in un’unica unità chiamata Nigeria.

 

 

 

I colonizzatori tracciarono confini artificiali che non tenevano conto  dell’incongruenza culturale che esisteva tra le popolazioni che venivano riunite. I confini furono tracciati per facilitare l’amministrazione della nuova nazione che avevano creato. Naturalmente, questo amalgamazione di persone con diverse inclinazioni sociali, politiche, culturali e ideologiche ha portato a dispute interetniche e conflitti religiosi nella nazione.

 

 

 

 

Gli abitanti della regione settentrionale (gli Hausa) erano prevalentemente musulmani, mentre quelli della regione meridionale erano prevalentemente cristiani. Costretti a vivere insieme in un’unica nazione grazie all’amalgamazione, gli abitanti della Nigeria hanno imparato a coesistere l’uno accanto all’altro, mentre una guerra fredda continuava a essere alimentata da tensioni etniche.

 

 

 

Durante la lotta per l’indipendenza della Nigeria dalla Gran Bretagna, intensificatasi negli anni Cinquanta, i vari gruppi etnici lavorarono insieme. È ipotizzabile che, avendo un obiettivo comune di liberazione dai padroni coloniali, le loro differenze sembrassero essere sommerse dall’obiettivo più ampio dell’indipendenza. Nel 1960, la Nigeria ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna.

 

 

 

Naturalmente, le differenze che erano sempre esistite nei loro modi di vita, nella cultura e nell’ideologia, riemersero. Questo portò a una serie di disordini, culminati in una catena di rivolte e colpi di stato militari. Durante queste rivolte, i gruppi etnici sono stati messi gli uni contro gli altri e molte persone sono state massacrate a sangue freddo.

 

Famiglie europee attendono l’evacuazione in barca a Port Harcourt, durante la guerra del Biafra.

 

 

L’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state i tumulti e le diverse ondate di sommosse nel nord della Nigeria nel 1966 che culminarono nel brutale massacro di migliaia di Igbo (tra cui alcuni miei parenti) da parte delle loro controparti nigeriane. Le uccisioni convinsero gli Igbo che la loro sicurezza non poteva più essere garantita al di fuori della terra d’origine, e così si verificò un esodo di massa da Nord a Sud. Gli Igbo lasciarono in massa le regioni settentrionali e occidentali e tornarono nella loro regione natale.

 

 

 

Odumegwu Ojukwu, il 30 maggio 1967, dichiarò la secessione delle regioni del Sud dalla nazione della Nigeria fondando così la nuova Nazione, il Biafra. La Nigeria, rifiutando di accettare la sovranità del Biafra, inviò circa un drappello di circa 100.000 soldati, composte principalmente da persone di etnia Hausa e Yoruba, per combattere i gueriglieri della regione del Biafra.

 

 

La massiccia offensiva militare contro il Biafra fu un tentativo di reintegrarlo nell’ovile nigeriano,  dichiarò in seguito il col. Yakubu Gowon. Rifiutando di essere costretti a far parte di una nazione in cui la loro sicurezza era ormai in discussione, il Biafra imbracciò le armi per difendersi.

 

 

 

E così iniziò una guerra civile di 30 mesi tra la Nigeria e la nuova nazione del Biafra, con attacchi aerei mirati a località civili, che hanno causato la morte di migliaia di bambini, donne e anziani.

 

 

 

La Nigeria ha usato il blocco terrestre e marittimo per impedire che il cibo dei  soccorsi raggiungesse le masse affamate del Biafra e migliaia di bambini sono morti per una forma di malnutrizione chiamata kwashiorkor.

 

 

 

Alla fine di tutto, nel 1970 (con strascichi fino al ’72 e oltre), due milioni di persone erano morte (ma ricordiamoci che non esisteva ancora una capillare forma di censimento, quindi si ritiene fossero molti, ma molti di più).

 

Mamma custode del prezioso “lasciapassare”

 

 

La mia famiglia materna è di Umuchoko Obiangwu, un villaggio nel rione di Ngor Okpala. Obiangwu, come molti altri villaggi nelle vicinanze di Owerri, è stata una zona di “intensa attività missionaria” all’inizio del XX secolo. La Community Pry School del villaggio (scuola primaria di mia madre), per esempio, fu istituita nel 1948 da missionari apparentemente caritatevoli.

 

 

 

 

 

Mio padre riteneva non fosse una buona idea seguire anche noi l’esodo di massa e ci aveva visto lungo: era convinto che traslocare da Lagos/Abeokuta dove vivevamo e andare al villaggio sarebbe stato un suicidio, un mettersi in un imbuto di latta (diceva testualmente) e diventare esca  per le prede. Preferiva farci fare mini incursioni mordi e fuggi approfittando del suo privilegio di essere un uomo bianco con una bambina altrettanto simil-bianca appresso (effettivamente non avevo lineamenti tipicamente nigeriani) e lasciare mia madre, Biafrana, al sicuro nel compound della ditta italiana per cui lavorava come Quarry Manager.

 

 

Vi chiederete con quale fegato portasse con sé una infante in mezzo al pericolo di una guerra in corso. Ebbene, paradossalmente, io ero uno scudo inaffondabile agli occhi dei militari (data la mia età) che in combo con il suo essere bianco occidentale, filantropo e soccoritore,  diventavamo un lasciapassare in qualsiasi checkpoint. E così fu. Anche qui, l’uomo Teodorico (così si chiama il mio Papuz) ci aveva visto lungo. Ma che rischio!!! L’obiettivo, però, nella sua strategia, era salvare più vite possibili e noi due avevamo il privilegio più assoluto (almeno in quel contesto) di poter raggiungere un numero elevato di persone.

 

 

 

 

 

 

Adoravo la terra natia di mia madre, perché la terra rossa che c’è lì non la si trova da nessuna altra parte della Nigeria ed emana un’energia visceralmente potente. Le acque del fiume che l’attraversa aveva una vibrazione magica in grado di calmare chiunque affetto da agitazioni e paure varie. Vedevo Umuchoko Obiangwu come un posticino tranquillo, bucolico e pittoresco, con alberi di udara disseminati ovunque e uccelli che cinguettavano incessantemente. Adoravo le feste mascherate chiamate opiakamkpala e ikedinodogwu, dove si ballava di casa in casa per un paio di pennies, mentre le famiglie ridevano di cuore e li applaudivano dopo i loro energici balletti. Tutti questi ricordi si sono amalgamati alla sensazione di essere sempre al sicuro, nonostante non mi fosse mai venuto in mente che le circostanze erano ben diverse dall’aria di accoglienza festiva. I kilometri dei nostri viaggi erano scanditi dalla canzoncina che mamma mi cantava ogni sera prima di chiudere gli occhi:

 

 

 

 

Chukwu, anyi ejikere ije nke anyi

Anyi mara na gi bu onye ndu anyi

Oge anyi ga arapu, biko duru anyi

Nani gi kanyi n’atukwasi obi

[Traduzione]

Dio, siamo pronti a intraprendere il nostro viaggio

Sappiamo che tu sei la nostra guida

Quando partiamo, ti preghiamo di guidarci

Solo in te riponiamo la nostra fiducia.

 

 

 

 

Papuz rastrellava Obiangwu e tutto il circondario. Ovunque vi fossero le famiglie che mamma indicava su una specie di lista che prontamente gli preparava ad ogni viaggio. A parte un unico viaggio in cui venne anche lei perché i miei nonni erano devastati dalla situazione (sarebbero morti, di lì a poco di “crepa cuore” – avevano una sensibilità straordinaria e tutto quel macello era per loro intollerabile). E, in quell’occasione assistetti ad una delle scene più cruente che due occhi come i miei potessero augurarsi di vedere: mamma venne scoperta essere biafrana e la presero in ostaggio, insieme al nostro gwongworo (il camioncino che Papuz usava per caricare la gente e trasportarla fuori dall’inferno senza dare troppo all’occhio). Le negoziazioni del mio babbo-eroe, per liberarla si fecero sempre più concitate, ma ricorderò sempre la sua calma ed i suoi occhi algidi nel concludere l’affare con il colonnello di turno.

 

 

 

Devo anche dire che negli impegni concitati di Papuz io riuscivo a giocherellare con i bambini che avevamo intorno. Purtroppo iniziavano a  manifestare uno strano fenomeno: alcuni di loro cominciarono a sviluppare una pancia gonfia, piedi gonfi e pelle più chiara! L’effetto di trasformazione di questo strano fenomeno sulle persone era drastico. All’inizio i bambini (me compresa) lo trovavano divertente, perché non capivamo tutte le implicazioni di ciò che stava accadendo. Spesso giocavamo con i bambini afflitti da questo disturbo e li chiamavamo scherzosamente “afo mmili ukwa“, un altro modo per dire che qualcuno è un ghiottone o un pancione. Non sapevamo che stavano gradualmente venendo condannati a una morte prematura a causa di una guerra che non avevano certo causato. Abbiamo avuto un brusco risveglio quando alcuni di loro hanno iniziato a morire per davvero. Un bambino con cui giocavi iniziava progressivamente a cambiare colore, come una persona affetta da itterizia. Le guance iniziavano a gonfiarsi, seguite dai piedi; poi i capelli iniziavano a diradarsi e ad assumere una consistenza fine, diventando marrone rossastro. Alla fine il bambino rallentava per la debolezza e se ne andava.

 

 

 

Obiangwu ha sentito meno questo strano fenomeno perché il mio Papuz, la Caritas (che ha fatto davvero un lavoro straordinario portando generi alimentari in Biafra per aiutare le masse affamate tanto che i Biafrani ringraziavano cantando “Caritas, si anyi, taba okporoko, kwashiorkor g’ana” – “La Caritas ci ha chiesto di mangiare lo stoccafisso e il kwashiorkor sparirà”) e i missionari polacchi, austriaci e tedeschi degli ospedali che mio padre aveva costruito, integravano il cibo che la gente produceva, con farina di mais, latte, stoccafisso e riso del Gabon, tenendo lezioni alle donne sul tipo di alimentazione da somministrare ai loro figli per evitare il kwashiorkor. Inoltre, Papuz costruì dei pozzi per provvedere all’acqua potabile e pulita.

 

 

 

 

Comunque sia debbo dire una grande verità: nei tre decenni successivi alla fine della guerra civile nigeriana è stata dedicata poca attenzione ai bambini che hanno vissuto il conflitto. I ricordi degli adulti di oggi che hanno vissuto questo orrore nella loro infanzia sono intrisi di sentimenti contrastanti e le loro reazioni al conflitto, la loro vita durante le ostilità e alcuni degli effetti della guerra sui bambini sopravvissuti sono ancora molto vivi. Ho avuto modo di condividere con altri bambini vittime della guerra civile nigeriana esperienze simili e paragonabili a quelle di bambini di altre aree devastate dalla guerra, che hanno subito l’abbandono e vari gradi di brutalità. Eppure, nei limiti delle loro capacità, hanno aiutato le loro famiglie a sopravvivere al conflitto, ma poco si sa sui giovani nigeriani che hanno vissuto una guerra civile di cui si è scritto molto.

 

 

Uno dei ricordi più vivi è quello di come i bambini e ragazzi venivano reclutati per servire la nuova Nazione. Li prelevavano direttamente dai villaggi e li usavano come spie e come soldier boys, munendoli di fucili e attrezzatura da combattimento. L’accesso ai fucili dava ai bambini soldato una sensazione di importanza. Era una bella sensazione, secondo loro. Alcuni hanno riferito che evocava fiducia e senso di realizzazione.

 

 

I giovani che non volevano combattere cercavano disperatamente di sfuggire al reclutamento. Si nascondevano in cisterne d’acqua, tetti, grotte e bunker. Le persone influenti a tutti i livelli sociali in Biafra impedirono ai loro parenti stretti di essere arruolati o coinvolti in combattimenti, trovando per loro posizioni alternative in altre aree del governo. E così fece pure Papuz garantendo loro il trasferimento e insegnando loro un mestiere nella sua attività estrattiva.

 

 

 

La guerra civile ha modificato la vita dei bambini. Sicuramente hanno subito la cessazione delle attività scolastiche, l’insicurezza dovuta ai combattimenti; i raid aerei federali su postazioni civili, scuole e ospedali e i continui spostamenti. Fame e malattie hanno dilagato dal 1968 fino alla fine delle ostilità e molti anni più in là. I bambini erano trasandati, alcuni si vestivano con abiti improvvisati fatti con sacchi di sale e materiali di politene. La paura era l’emozione comune, destabilizzante. Suoni di varie entità e grida di esseri umani in difficoltà, di dolore e di fame, con il rumore dei bombardamenti e l’angoscia delle persone colpite, caratterizzavano una giornata tipo. Dal risveglio all’ora di andare a letto, gli spari e le esplosioni di bombe incutevano paura nei bambini.

 

 

Mia cugina Edith, con cui passavo la gran parte del tempo in assenza dei miei,  diceva che  “solo di notte c’era la calma, tranne che per le famiglie che avevano recentemente perso un figlio”. La chiusura delle scuole dava ai bambini più tempo per lo svago, finché le attività militari non hanno interrotto tali libertà. I bambini sotto i dieci anni dipendevano dai genitori e dai membri della famiglia allargata per il sostentamento ma gli adolescenti assistevano gli adulti nelle attività di sostentazione.

 

 

Le sfide poste dalla guerra si differenziano a seconda dell’età e del sesso. Mentre i ragazzi erano minacciati dal reclutamento e dal servizio militare, le ragazze dai quindici anni in su hanno dovuto affrontare le molestie sessuali dei soldati federali e biafrani. Un alto numero di ragazze è sopravvissuto alle sfide della guerra attraverso la prostituzione o la convivenza con i soldati. Lo sfruttamento sessuale avveniva all’interno e all’esterno dei circoli militari.

 

 

La presenza dei militari federali ha esposto i bambini ad altri problemi legati alla guerra, in particolare alla carestia poiché costringevano ripetutamente i ragazzi più grandi a donare il sangue per curare i soldati feriti. Dopo aver donato il sangue, alcuni venivano arruolati nell’esercito federale. Quelli non qualificati per il servizio militare venivano cooptati come servi dagli ufficiali militari federali.

 

 

Insomma il periodo della guerra è stato generalmente difficile per i bambini biafrani, ma se vogliamo trovare un piccolo barlume di situazione non troppo spiacevole, possiamo rammentare come il conflitto abbia fatto recuperare a coloro che prima della guerra risiedevano fuori da Igboland, il senso della comunità e del ritorno alle attività rurali.

 

 

I ragazzi acquisirono competenze in diversi mestieri, tra cui la lavorazione del ferro. Alcuni impararono a  cacciare i roditori, a pescare, a curare e sfruttare gli alberi da frutto e officinali e a costruire case con tetti in fibra. L’abilità nella costruzione di case è diventata molto utile dopo la guerra, quando i sopravvissuti iniziarono a restaurare le loro case danneggiate e fatiscenti.

 

 

Come i ragazzi hanno sviluppato competenze di genere, così le ragazze. L’acquisizione di nuove competenze è stata resa possibile dalle comunità nei vari luoghi di rifugio. Quasi tutti i bambini che hanno acquisito una nuova abilità durante la guerra hanno riferito di averlo fatto in una comunità di rifugio, e per lo più sotto l’insegnamento di bambini della loro stessa categoria di età. In una certa misura, le rigide distinzioni dei ruoli di genere vennero meno durante le ostilità. Ragazzi e ragazze parteciparono ad attività simili.

 

 

L’atteggiamento comunitario degli Igbo nei confronti della morte e dei cadaveri è stato disorientato dalla guerra. Dove prima i cadaveri erano trattati con dignità e seppelliti subito dopo il decesso, ora i bambini venivano protetti da riti ove era loro vietato guardare i cadaveri, soprattutto perché spesso ridotti in brandelli e disseminati in tutti gli angoli dei villaggi. La guerra ha diminuito il valore della vita. I frequenti incontri con i cadaveri hanno costretto i bambini a confrontarsi con le questioni della vita e della morte in tenera età. Se da un lato ha terrorizzato alcuni dal punto di vista mentale ed emotivo, dall’altro ha causato in altri un certo grado di indifferenza nei confronti della sacralità della vita umana. Questi impatti si sono protratti anche in tempo di pace e sono stati imputati a manifestazioni di comportamento violento da parte dei giovani subito dopo la guerra.

 

 

Con la guerra sono emerse le vedove bambine. Si trattava di giovani ragazze i cui mariti sono morti durante il conflitto. L’estinzione delle famiglie a causa della mancanza di figli maschi ha turbato gli Igbo. Quando la sopravvivenza di una famiglia è minacciata da morti o da catastrofi sociali, la prassi prevede che le mogli vedove vengano sposate in tale famiglia in memoria di un maschio morto, per continuare quella famiglia. La tragedia della guerra civile, che ha lasciato molte famiglie senza prole maschile, ha visto il ricorso a questo rimedio per la sopravvivenza del lignaggio.

 

Le vedove bambine appartengono a due categorie. Un gruppo comprendeva le ragazze che sposate con il marito morto e partorivano figli a suo nome, anche se biologicamente nome di quest’ultimo, anche se biologicamente generati da un parente stretto dell’uomo morto; altre diventavano mogli di altre sono diventate mogli di un parente maschio del marito morto e hanno partorito figli per il figli per il nuovo marito. Mentre le ragazze della prima categoria non si risposavano, quelle del secondo gruppo si risposavano con partner che venivano considerati come sostituti del marito morto.

 

 

La guerra ha indebolito i legami di amicizia tra i bambini al di là dei confini etnici. All’interno della vecchia Regione del Sud, i sentimenti anti-biafrani Efik, Ekoi, Ibibio e Ijaw degenerarono in ostilità reciproca tra tutti questi gruppi, da una parte e dall’altra sia durante che dopo la guerra. I bambini più grandi dell’esercito biafrano erano nei battaglioni che uccidevano i civili nei villaggi Ibibio per aver aiutato le truppe federali contro i Biafrani.

 

Io e i bambini sopravvissuti alla guerra del Biafra non la ricordiamo, a distanza di decenni, come una  narrazione unitaria. Le nostre narrazioni sono avvenute in forma episodica e hanno affrontato incidenti specifici, apparentemente quelli che hanno lasciato un segno più profondo su di noi o che abbiamo dovuto soffermarci più a lungo. È stato necessario indagare ulteriormente per far emergere altri eventi dai nostri banchi di memoria e per indurre una disposizione sequenziale degli eventi. Mentre alcuni di noi sono venuti a patti con la guerra, arginando gli effetti inevitabilmente traumatici, altri continuano a dare la colpa di alcuni dei loro problemi alla guerra. Quest’ultimo gruppo è composto da persone che hanno perso padri o tutori famigliari;  persone i cui sogni di carriera sono stati troncati da fattori legati alla guerra, ed ex vedove di bambini i cui coniugi sono morti durante il conflitto.

 

 

 

 

 

Le memorie dei bambini sopravvissuti alla guerra civile nigeriana ritraggono la guerra come un fenomeno continuo il cui impatto può persistere a lungo dopo la guerra come un incidente il cui impatto, a distanza di molti anni, può cessare di ferire profondamente le sue vittime. È ovvio che i bambini del Biafra erano consapevoli degli eventi durante la guerra. Erano anche suscettibili alla propaganda come gli adulti. Tuttavia, le loro opinioni, che spesso discutevano tra loro, non sono state espresse pubblicamente in nessun momento del conflitto crisi, perché non sono mai state cercate. Sotto questo aspetto, la guerra civile nigeriana può essere considerata come un modello per i conflitti successivi, soprattutto in Africa, in cui responsabili adulti ignorano i pensieri e le paure dei bambini quando contemplano o intraprendono un’aggressione militare. Nell’esperienza nigeriana la guerra civile ha spaventato molti bambini biafrani, la maggior parte dei quali non si è resa conto di tutte le implicazioni di un confronto militare con la Nigeria prima che scoppiasse.

 

 

Mentre i sentimenti dei bambini biafrani furono inizialmente pro bellico a causa dell’ostilità verso la loro regione e della vasta propaganda mondiale, in diverse fasi del conflitto hanno riconsiderato il loro punto di vista in seguito alle massicce perdite umane e materiali e la miseria causata dalla guerra. Tuttavia, soprattutto i bambini più grandi, continuano, oggi, a ritenere che la guerra fosse necessaria, anche se non desiderano rivivere un simile conflitto.

 

 

Mantenendo vivi i nostri ricordi della guerra, questi bambini sopravvissuti, oggi adulti maturi, siamo stati i depositari di un aspetto della storia della Nigeria e, allo stesso tempo, i divulgatori della stessa.

 

 

 

“He died as a Hero” – Una delle più belle testimonianza di uno dei sopravvissuti su come Papuz aveva salvato centinaia di migliaia di biafrani. La sua opera continuò per decenni, anche dopo la guerra. E la gratitudine dei più è ciò che riempie l’amara sensazione della sua assenza.

 

 

 

Luisa Casagrande, Veneto-Biafrana. Sopravvissuta.

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