Sport, Atleti di colore (diverso dal bianco) & Razza Sportiva

 

Gli insulti razzisti a Mike Maignan non sono certamente i primi che sentiamo nei vari contesti di gioco. Succede più spesso di quello che si pensa e cioè che, come persone di colore diverso dal bianco, o sei invisibile e sei messo a tacere in un angolo, o sei reso un superumano (non provi nemmeno dolore, né emozioni), il che dà una sorta di nozione di invincibilità.

 

Poi accadono situazioni dove si parla di razzismo nello sport ed il tema diventa automaticamente incandescente! Tanto da discuterne a random, ma raramente viene compreso. Negli ultimi anni questa problematica ha ricevuto una maggiore attenzione. Ciò è probabilmente dovuto in parte all’ascesa dei social media e al ciclo di notizie h24, che hanno dato origine a un maggior numero di opportunità di pubblicizzare gli episodi di razzismo. Inoltre, la lotta in corso per l’uguaglianza razziale e la giustizia sociale in alcuni paesi del pianeta, ha portato a un maggiore controllo sul modo in cui i diversi gruppi vengono trattati in tutti gli ambiti della vita, compreso lo sport.

 

Ora, a parecchi sale la bile in modo indefesso quando si fa notare quanto sia fondamentale affrontare temi quali il razzismo e la disuguaglianza razziale nello sport (e non solo), ma trovo che questa sia l’ennesima occasione (faccio parte di quella parte filosofica che crede nel continuo ed incessante ticchettio dei concetti e delle reazioni, fino a quando si raggiunge una parvenza di umanità) per riflettere su questi eventi e identificare come la disuguaglianza razziale, la discriminazione e il razzismo siano ancora prevalenti nella società moderna.

 

 

Non è possibile considerare il  razzismo come problema solo quando la vittima si ribella all’abuso. Non è possibile fare standing ovation alla vittima per il coraggio nel reagire a certe umiliazioni e poi voltarsi dall’altra parte cercando le giustificazioni più becere per prendere le distanze dall’accaduto o, peggio, per senso di colpa, offrire la caramellina della cittadinanza onoraria, di un premio speciale non si capisce per quale vittoria o quelle cose lì. Mi pare la solita minestra trita e ritrita.

 

 

Quando squadre visibilmente diverse vincono le coppe del mondo, ciò viene visto come un trionfo antirazzista. È uno dei motivi per cui la vittoria del Sudafrica nella Coppa del Mondo di rugby del 1995 è stata così simbolica, essendo arrivata poco dopo il crollo dell’apartheid. Oppure quando la squadra di calcio maschile francese ha ispirato ondate di orgoglio per il multiculturalismo francese dopo le vittorie del 1998 e del 2018. Abbiamo toccato la massima esaltazione nel sentire lo slogan Black-Blanc-Beur (nero-bianco-nordafricano), un riff su bleu-blanc-rouge (blu, bianco e rosso), i colori della bandiera francese.

 

 

Ma l’idea di raggiungere l’armonia razziale attraverso squadre sportive diverse ha suscitato anche una serie di  polemiche. Lo storico Laurent Dubois, nel suo libro sull'”Impero del calcio” francese, ha spiegato come la gioia nazionale per la vittoria di un torneo faccia passare in secondo piano storie difficili di razzismo ed esclusione. Inoltre, i festeggiamenti durano solo quanto la vittoria. Le ricerche hanno dimostrato che quando le squadre visibilmente diverse perdono, le correnti nazionaliste razziste e di esclusione esistenti salgono in superficie, manifestandosi come la negazione dell’appartenenza dei giocatori di colore alla nazione. Se la squadra non è “noi“, allora “noi” non abbiamo perso. Non è stata la nazione o il “mio” popolo a fallire, ma questi intrusi.

 

 

Questo può assumere forme diverse nelle nazioni in cui i bianchi non sono la maggioranza, ma il vetriolo di fondo è lo stesso. Ad esempio, le stelle dello sport indiane musulmane sono state oggetto di tali abusi nei loro Paesi, così come i giocatori giapponesi con origini nere.

 

In definitiva, una delle cose peggiori di questa forma di razzismo accaduto sugli spalti recentemente è stata la sua prevedibilità. E’ presente da tempo negli sport europei, americani e oceanici e si intensifica quando i giocatori di colore diverso dal bianco, vengono messi sotto i riflettori durante le principali competizioni internazionali. Un tweet in risposta a queste forme di razzismo cattura questo fenomeno: “Quando segni, sei italiano. Quando sbagli, sei un immigrato“. Lo storico Eric Hobsbawm sul potere del calcio di catturare i sentimenti nazionali diceva: “La… comunità immaginaria di milioni di persone sembra più reale di una squadra di 11 persone “.

 

 

Ma  …… intanto ….. cos’è questo razzismo nello sport?

 

Non esiste una definizione univoca di razzismo nello sport, ma in generale può essere descritto come qualsiasi forma di discriminazione o pregiudizio nei confronti di individui o gruppi in base alla loro origine etnica, razziale o nazionale. Esso può manifestarsi in diversi modi, tra cui commenti o gesti offensivi, disparità di accesso alle risorse o alle opportunità, segregazione delle strutture o degli eventi.

 

Sebbene il razzismo nello sport sia spesso considerato un problema che riguarda le persone di colore, può riguardare anche i bianchi. Per esempio, gli atleti bianchi che si esprimono contro il razzismo o mostrano sostegno agli atleti neri possono subire il contraccolpo dei tifosi o dei compagni di gara. In alcuni casi, questo contraccolpo può essere così forte da sfociare in minacce di morte o altre forme di violenza.

 

 

Il razzismo nello sport: storia ed esempi

 

Nonostante il razzismo nello sport esista da secoli, è bene sottolineare che non è sempre così palese o evidente come si potrebbe pensare. Il razzismo può manifestarsi in diversi modi, sia intenzionali che non, ed è spesso perpetuato dalle condizioni socioeconomiche che esistono nel mondo dello sport.

 

 

Uno degli esempi più famosi si è verificato all’inizio del 1900, quando il leggendario pugile Jack Johnson divenne il primo afroamericano a vincere il campionato dei pesi massimi. In seguito alla sua vittoria, si scatenò una protesta da parte di molti bianchi americani che ritenevano che a un uomo di colore non dovesse essere permesso detenere un titolo così prestigioso. Ciò portò all’introduzione del cosiddetto movimento della White Hope, la  “Grande speranza bianca“, che si prefiggeva di trovare un pugile bianco che potesse sconfiggere Johnson e riprendersi il titolo.

 

 

Oggi, ad esempio, molti ritengono che gli atleti neri siano rappresentati in modo sproporzionato in alcuni sport, come il basket e il calcio. Ciò è spesso attribuito alle condizioni socioeconomiche esistenti in molte comunità nere, che rendono la pratica di questi sport uno dei pochi modi per sfuggire alla povertà. Di conseguenza, gli atleti neri sono spesso stereotipati come “naturali” in questi sport, mentre gli atleti bianchi sono visti come quelli che devono lavorare di più per raggiungere il successo.

 

Ci sono stati anche numerosi casi di presunto razzismo all’interno di specifiche leghe sportive. Un esempio recente si è verificato nel 2013 negli Stati Uniti, quando il giocatore dei Miami Dolphins,  Richie Incognito è stato accusato di aver usato un linguaggio razzista nei confronti del compagno di squadra Jonathan Martin. Questo incidente ha portato a una discussione a livello nazionale sul razzismo nello sport e sulla necessità o meno di fare di più per affrontare il problema.

 

 

Ricordiamoci anche delle Olimpiadi di Berlino del 1936 quando nei piani di valorizzazione e promozione della superiorità della sua Germania, Adolf Hitler pensò di sfruttare l’evento e farlo diventare un’enorme cassa di risonanza per propagandare la potenza della grande Germania nazista e la superiorità della razza ariana, oltre che nella vita quotidiana, anche nello sport. Peccato che arrivò Jesse Owens, uomo nero, a rovinare tutti i piani del Führer. L’uomo più veloce del mondo vinse e si portò a casa ben quattro medaglie d’oro diventando, così, un vero e proprio simbolo dell’antirazzismo e la dimostrazione vivente della demenzialità di certe teorie.

 

E che dire dell’Italia e della sua “razza sportiva”? Il fascismo che si pregia delle cose buone fatte dal regime stesso nella creazione dello sport italiano, capace di portarlo ai vertici mondiali e nel contempo di diffondere la pratica sportiva in tutti gli strati sociali assumendosi un ruolo nelle politiche per il “miglioramento della razza” sviluppate tra gli anni Venti e Trenta e sulla funzione della “razza sportiva” nel dispositivo ideologico fascista? Questa stessa politica segregazionista che creò, nell’Africa Orientale Italiana, un “Ufficio indigeno per lo sport” dove le attività sportive che coinvolgevano atleti italiani furono interdette agli atleti di colore. Ci ricordiamo di Leone Jacovacci? Boxeur fortissimo, ma …. un gigante Mixed alto due metri? Sconfisse il toro fascista Mario Bosisio, laureandosi campione europeo dei pesi medi ma il mito della razza del Fascismo ne ha cancellato la memoria adottando un ostracismo di regime contro il pugile Mixed: la sua carriera finì praticamente lì e le immagini stesse dell’incontro del titolo furono manomesse.

 

 

 

 

Perché lo sport ha un problema di razzismo?

 

È una domanda che sentiamo sempre, ma è sbagliata. Succede nello sport perché lo sport fa parte di ciò che siamo. Lo sport non è separato dalle scuole che frequentiamo, dai posti di lavoro che occupiamo o dalle periferie in cui viviamo.

 

Si sente spesso dire che lo sport è nel “DNA del Paese”.

Il razzismo avviene nello sport perché c’è razzismo in quel contesto. Ne sentiamo parlare più spesso nello sport perché lo sport è pubblico: si gioca all’aperto o in un campo chiuso, con un pubblico in carne e ossa e,  viene trasmesso in tutto il Paese e nel mondo, con un’infinità di spazi dedicati sui giornali e siti online. Se i campi di gioco delle scuole, i barbecue nel cortile di casa e le riunioni in ufficio fossero così pubblici, non avremmo bisogno di chiederci “perché il razzismo avviene sempre nello sport?”.

Per affrontare il razzismo, è necessario ascoltare l’esperienza di chi la subisce e soprattutto cosa sentono ai vostri “non intendevamo” o alle azioni intese SOLO come “uno scherzo”. Questo tipo di battute non sono divertenti e la rivendicazione dell’ignoranza non è più accettabile.

Non spetta a un bianco decidere cosa è razzista e cosa no.

Il razzismo nello sport è una realtà. Gli episodi di discriminazione e vilipendio sono diffusi in molti codici sportivi, coinvolgendo sportivi professionisti e dilettanti, allenatori e spettatori.

È chiaro che la paura del razzismo nello sport è un ostacolo alla partecipazione per molti individui e gruppi della società, ciò che non è altrettanto evidente è cosa stiamo facendo per affrontare il problema.

 

 

Come si presenta il razzismo nello sport?

 

 

Il razzismo nello sport è un problema complesso. Può includere: razzismo, discriminazione, molestie o vilipendio da parte di giocatori nei confronti di altri giocatori; da parte di spettatori nei confronti di giocatori; o comportamenti razzisti tra gruppi di spettatori rivali che sfociano in disordini e violenza sugli spalti. Include anche le azioni dei dirigenti sportivi e degli allenatori, nonché dei commentatori dei media.

 

Quando pensiamo al razzismo nello sport, spesso sentiamo parlare di forme palesi ed eclatanti come, appunto quello appena accaduto sui campi di calcio. La verità è che il settore dello sport (non solo nel calcio) e dell’attività fisica non è affatto immune da pregiudizi, razzismo e discriminazione. Il razzismo e le disuguaglianze razziali influenzano in modo significativo l’accesso e la partecipazione allo sport e all’attività fisica da parte di comunità etnicamente diverse e non è una sorpresa il fatto che le esperienze delle comunità etnicamente diverse differiscono in modo significativo dalle loro controparti bianche.

 

Provate a parlare con qualsiasi ragazzo o ragazza impegnato/a a livello agonistico in qualche sport: vi racconteranno, 90 su 100, che sono stati vittime di razzismo. Sappiamo anche che episodi come questo possono non essere denunciati e che, se consideriamo l’ecosistema sportivo, non fanno altro che scalfire la superficie. Questi incidenti non solo evidenziano la portata degli abusi e delle discriminazioni subite dagli individui all’interno dello sport, ma servono anche a ricordare costantemente il lavoro che deve essere ancora fatto.

 

E che dire di quella visione offensiva tanto cara ai dirigenti sportivi che riduce automaticamente gli atleti neri alla loro prestanza fisica? Trovo sia disumanizzante, in quanto li riduce, ad esempio, al livello dei cavalli da corsa. Rafforza l’idea che “i bianchi hanno il cervello mentre i neri hanno i muscoli“.

 

 

 

In che altro modo si presentano il razzismo e la disuguaglianza razziale? 

 

 

Anche le intersezioni tra genere, orientamento sessuale, classe, età e disabilità influenzano le esperienze nello sport. I codici di abbigliamento e le uniformi danno spazio alla trasformazione di molti “ismi” in politiche, poiché gli standard tipici dell’abbigliamento professionale e delle uniformi sportive si basano essenzialmente su visioni razziste, sessiste e classiste.

 

 

Vi ricordate la FINA alle Olimpiadi di Tokyo 2020 che vietò l’uso di cuffie da nuoto per capelli afro nelle competizioni internazionali? Quelle cuffie erano “cappellini” da nuoto progettati per la comunità nera. I capelli afro sono naturalmente più secchi degli altri capelli perché hanno meno strati cellulari. Le sostanze chimiche presenti nelle piscine possono seccarli maggiormente, causando danni. Le attuali cuffie da piscina sono spesso problematiche a causa dell’elasticità. Avere un abbigliamento uniforme e obbligatorio, concepito in modo specifico, può essere una barriera enorme, ma la realtà è che la storica e continua mancanza di diversità nel settore evidenzia che barriere come queste continueranno a emergere se non riusciamo a trovare un modo per apportare l’esperienza e l’intuizione necessarie nella progettazione di prodotti, programmi, politiche e strategie.

 

 

 

La professionalità come costrutto razziale può manifestarsi in diversi modi, anche in ambiti come la retribuzione e la promozione. Uno studio condotto dalla Northwestern University ha concluso che i candidati bianchi hanno ricevuto il 36% in più di chiamate per un posto di lavoro rispetto a candidati altrettanto qualificati con nomi tipici di persone di colore diverso dal bianco. Le persone con nomi classici dell’Asia meridionale e dell’Asia orientale avevano il 28% in meno di probabilità di essere chiamate per un colloquio rispetto alle loro controparti bianche. Nel Regno Unito, a una persona di nome Adam è stato offerto il triplo dei colloqui rispetto a una persona di nome Mohammed. Prima ancora che le comunità nere e Mixed possano pensare di candidarsi per un ruolo, c’è il rischio che i pregiudizi inconsci possano mettere gli individui in una posizione di svantaggio significativo. Non è raro che i candidati fingano un nome nelle domande di lavoro per annullare quasi i pregiudizi o gli stereotipi razziali.

 

 

Sovrarappresentazione e sottorappresentazione

 

Agli atleti neri viene solitamente attribuito il merito del loro “atletismo naturale”, mentre agli atleti bianchi viene riconosciuto il “duro lavoro”, la “disciplina” e la “conoscenza del gioco”.

Questi stereotipi sportivi possono avere un impatto anche sulle persone che assumono ruoli nel mondo sportivo. La maggior parte dei datori di lavoro non si preoccupa delle capacità atletiche naturali di un dipendente, tuttavia gli stereotipi di “superiorità atletica” potrebbero spiegare perché le comunità nere e Mixed sono sovra-rappresentate nei ruoli di sicurezza sportiva.

Quando gli stereotipi iniziano a insinuare che certe razze hanno determinate caratteristiche, siano esse positive o negative, cadono nelle stesse generalizzazioni razziste che sono alla base del razzismo e della discriminazione basata sulla razza.

La professoressa Cynthia Frisby ha pubblicato uno studio che esamina le rappresentazioni mediatiche degli atleti maschi neri e ha scoperto, dopo aver analizzato un decennio di ritagli di giornale, che gli atleti maschi neri ricevono “una copertura significativamente più negativa” sotto forma di storie di cronaca dura sulla violenza domestica e sessuale; mentre le loro controparti bianche sono gli eroi protagonisti di storie che mettono a nudo le sfumature della loro umanità. È chiaro che le parole contano. Le parole fanno male. Eppure le conseguenze del linguaggio bigotto sono poche, se non nulle.

 

 

 

 

Razzismo e atleti

Negli ultimi anni si sono verificati numerosi casi di razzismo di alto profilo nello sport, che vanno da commenti casuali ad aggressioni vere e proprie e non sempre si presenta in forma palese o intenzionale.  Abbiamo diversi tipi di manifestazioni, tra cui:

  • Abuso sui giocatori: che può comprendere insulti razziali e altri linguaggi offensivi rivolti ai giocatori da parte di tifosi, giocatori avversari, allenatori o altri dirigenti. Questo tipo di razzismo può essere difficile da sradicare perché spesso non viene controllato da chi occupa posizioni di potere. Può anche manifestarsi come forme sottili di discriminazione, ad esempio non fornendo risorse adeguate agli atleti delle minoranze o escludendoli da determinati campionati o squadre.
  • Negazione di opportunità: può includere la mancata selezione o il mantenimento di giocatori in base alla loro razza, o l’assegnazione di posizioni che riflettono stereotipi (ad esempio, l’assegnazione di giocatori neri a ruoli difensivi).
  • Violenza fisica: questa è la forma più estrema di razzismo nello sport e può includere qualsiasi cosa, dalle aggressioni alle minacce di morte, fino alla vera e propria violenza fisica sul campo di gioco.

 

Razzismo e media sportivi

Il razzismo e i media sportivi sono spesso intrecciati. La copertura mediatica degli eventi sportivi può influenzare il modo in cui le persone pensano alla razza e gli atteggiamenti razzisti possono portare a comportamenti discriminatori nei confronti di alcuni atleti o gruppi di persone. Alcune categorie, infatti, ancora oggi continuano a essere oggetto di trattamenti discriminatori da parte dei tifosi e dei media.

 

Razzismo e sponsor sportivi

Uno degli esempi più visibili di razzismo nello sport è la sponsorizzazione di squadre da parte di aziende che producono o vendono prodotti razzisti. Per esempio, qualche anno fa ci fu indignazione quando si scoprì che i Washington Redskins della National Football League erano sponsorizzati da un’azienda che produceva magliette razziste. Alla fine la squadra ha rinunciato alla sponsorizzazione, ma questo evidenzia come il razzismo possa essere perpetuato dalle istituzioni che sostengono lo sport.

 

Razzismo e organi dirigenziali sportivi

Il razzismo nello sport può anche essere istituzionale, quando, cioè, gli organismi sportivi adottano politiche o pratiche che discriminano alcuni gruppi. Ne è un esempio quando si sono verificati diversi incidenti di alto profilo, culminati con il movimento #BlackLivesMatter che ha ottenuto una notevole diffusione a livello mondiale. Tra questi, il giocatore di football americano Colin Kaepernick è stato escluso dalla NFL per aver protestato pacificamente durante l’inno nazionale e ciò ha fatto vedere il potenziale nel danneggiare la reputazione degli organismi sportivi e nel scoraggiare del tutto la partecipazione allo sport.

 

L’impatto psicologico del razzismo sugli atleti e la salute mentale

 

Gli insulti razziali da parte dei tifosi, le discriminazioni a qualsiasi livello del gioco e i pregiudizi possono, in un contesto sportivo,  avere un impatto negativo sulla salute mentale, sul benessere e sulle prestazioni degli atleti, provocando rabbia, bassa autostima, frustrazione, ansia, depressione, disturbo post-traumatico da stress (PTSD), diminuzione della motivazione, della concentrazione e della fiducia in se stessi, sensazione di isolamento o di solitudine, difficoltà a raggiungere obiettivi personali e professionali, sensazione di impotenza e disperazione.

 

 

 

Come possiamo iniziare ad affrontare il razzismo nello sport?

Dobbiamo dire la sincera verità. All’interno degli organi dirigenziali dello sport c’è chi sta cercando di fare un vero cambiamento. È difficile, ma c’è un timido segnale di movimento in questo senso. È, però,  particolarmente difficile quando tutti coloro che prendono le decisioni su cosa fare e quando farlo sono bianchi perché, a dirla tutta, cosa ne sanno?

 

Accettare i consigli di un comitato collaterale non è la stessa cosa che accettare i consigli di coloro che occupano le posizioni più alte di influenza e che determinano l’agenda. Nello sport, come nel lavoro, come nella scuola, come nella politica, chi detiene il potere è di norma bianco. E finché il razzismo rimarrà solo un problema secondario, che preferiremmo far sparire piuttosto che cercare di risolvere, rimarrà.

 

In una società prevalentemente bianca, con un dominio di voci bianche che stabiliscono l’agenda quotidiana delle notizie, non spetta a un bianco decidere cosa sia razzista e cosa no.

 

In attesa delle indagini su quanto accaduto allo stadio Bluenergy di Udine e sulla gravità dei commenti razzisti, una cosa è chiara: decidere cosa è o non è razzista non è una decisione che spetta ai giornalisti, ai dirigenti o a chicchessia, ma a chi ne è vittima. Lo abbiamo visto chiaramente: alcuni media si sono affrettati a giustificare queste azioni, o a cercare di spiegarle e altri a sminuirle. Così altri colleghi calciatori.

 

E’ un dato di fatto. Il razzismo esiste ancora anche se in alcuni ambienti si ha la percezione e la rappresentazione che la battaglia contro il razzismo sia stata vinta. Ma proprio quando sembra che le leggi sul vilipendio razziale e religioso e le politiche antidiscriminatorie nei nostri codici sportivi nazionali stiano funzionando efficacemente, ecco che arriva un altro incidente razziale da parte di uno dei nostri sportivi o commentatori per ricordarci che il problema è ancora molto vivo.

 

 

Lavorare insieme a atleti di colore diverso dal bianco è una delle sfide più traumatiche che un Mentor o un Coach può affrontare, soprattutto e particolarmente, se tu stessa sei un professionista di colore diverso dallo standard dominante, bianco o nero sia.

 

E’ più che necessaria un’azione collettiva per affrontare continuamente le strutture ereditate, i sistemi arcaici e sfidare le istituzioni sul razzismo. Non è sufficiente dire che non siamo più razzisti: tutti noi dobbiamo lavorare attivamente per garantire che siamo individualmente e organizzativamente antirazzisti se vogliamo veramente smussare il razzismo in tutte le sue forme (viene voglia di dire “eliminare”, ma al mio totale senso oggettivo e obiettivo è ben chiaro che i tempi non sono ancora maturi per parlare di “eliminazione” ). La lotta al razzismo deve essere considerata una responsabilità di tutti.

 

 

Il razzismo di cui sono vittime gli atleti neri non si limita allo sport, ma è radicato nel modo in cui i bianchi hanno visto il corpo dei neri per secoli. Gli stereotipi di lunga data sulla potenza del corpo dei neri, sulla loro forza e resistenza, risalgono al XVII secolo. I neri schiavizzati (soprattutto gli uomini) venivano valutati, venduti e comprati per la forza del loro corpo e la loro capacità di svolgere lavori manuali, non per il loro intelletto o acume mentale. Arrivando ai giorni nostri, i media tendono ancora a descrivere gli atleti neri in termini di forza fisica rispetto alla loro abilità tattica: la forza bruta prevale sulla strategia. Molte cose vengono nascoste quando si teme che parlare significhi non essere in grado di esibirsi o competere.

 

 

Il tennis, per esempio, è uno sport storicamente – e qualcuno direbbe nostalgicamente – bianco e quando gli atleti neri vincono, il loro successo è spesso attribuito alla forza fisica piuttosto che al talento. Basti pensare che la potenza di Serena Williams viene sempre messa in risalto rispetto alla sua capacità di rimontare mentalmente e strategicamente quando è sotto di un set.

 

 

E questo tipo di razzismo inizia molto prima del livello professionale. Anch’io ero una ginnasta nella mia infanzia – l’unica donna Mixed nella squadra – e ricordo di aver parlato con una delle mie compagne di squadra bianche più giovani della diversità nella nostra scuola, che era prevalentemente bianca. Mi disse che non ero “veramente” nera, e io la guardai confusa e la corressi. Credo che intendesse dire che avevo un aspetto misto e che quindi, secondo lei, non contava. O forse pensava che non parlassi o non agissi in un modo che corrispondesse allo stereotipo che aveva delle persone di colore. Ma il messaggio era chiaro: per lei il mio essere nera era da scartare. I bianchi definiscono da secoli la nostra diversità, quindi credo che non avrei dovuto sorprendermi che la mia esperienza, in una scuola superiore italiana negli anni ’90, fosse diversa.

 

 

 

Dobbiamo essere in grado di reclamare il modo in cui i corpi neri sono visti nello sport, il che significa annullare una narrazione che è stata in vigore per 400 anni. Sociologi, storici, critici d’arte, attivisti antirazzisti e studiosi dei media concordano sulla portata del problema. C’è una lunga, profonda e pervasiva tradizione di designare i giocatori di colore in come “altri” rispetto alla norma e come più “fisici” o meno “strategici”. Non è un caso che solo il 3,9% degli allenatori dei 14 maggiori campionati europei abbia un background di minoranza etnica. La ricercatrice Irene Blum e l’attivista antirazzista John Oliveira hanno osservato che ciò riproduce modelli storici secolari di lavoratori neri e proprietari bianchi sostenuti dal razzismo scientifico, dalla schiavitù e dal colonialismo.

 

È una sfida annullare decenni di stereotipi ed è un peso per molti atleti. Sapere che vi verrà sempre chiesto di parlare di razzismo è un ostacolo mentale che può intralciare le prestazioni. E anche se un atleta ha la forza mentale di esibirsi senza preoccuparsi del peso di rappresentare la propria razza, sa che in caso di successo farà comunque parte della sua storia. Quando gli atleti neri hanno successo, hanno meno probabilità di essere promossi a posizioni di leadership nelle squadre o assunti come allenatori. Si pensi al calcio italiano dove non vi è ancora un allenatore o un dirigente di colore diverso dal bianco, nonostante vi siano italiani neri che hanno avuto successo nel corso della loro carriera professionale.

 

 

 

Quindi, concretamente, come possiamo iniziare ad affrontare il razzismo nello sport?

 

Iniziando, intanto, di considerare lo sport come costruttore di ponti culturali e razziali. Lo sport è un ottimo veicolo per stabilire norme di comportamento che possono essere emulate dal resto della società, in particolare dai giovani. Lo sport offre l’opportunità di abbattere le barriere e incoraggiare la partecipazione in un modo che altre aree della società possono faticare ad eguagliare.

 

Il vantaggio è che lo sport è in gran parte una meritocrazia. Quando lo sport è il veicolo della cultura, chiunque può salire a bordo. Non è necessario un legame genetico con il passato della nazione. La vita culturale non riguarda tanto una storia condivisa quanto è un presente condiviso.

 

Anche con tutti i suoi limiti, lo sport è un luogo in cui il razzismo potrebbe essere affrontato in modo significativo per quanto riguarda la partecipazione a tutti i livelli, dove i risultati e l’identità possono dominare i risultati e dove il comportamento degli spettatori può riconoscere e rispettare le differenze. Nella misura in cui lo sport costruisce ponti sociali e culturali e nella misura in cui raggiunge la comunità in modo pratico e simbolico, è un luogo esemplare in cui combattere il razzismo e l’odio razziale.

 

 

 

 

La strada da percorrere

 

Il razzismo esiste nello sport proprio come nel resto della società. Tuttavia, molto può essere fatto, per contrastare il razzismo e il pregiudizio nello sport, attraverso una serie di politiche e programmi di protezione dei membri stabiliti dai codici sportivi che promuovono una positiva consapevolezza della diversità culturale, religiosa ed etnica.

Lo sport non è avulso dalla vita, dalla cultura civica di una società, dalle sue istituzioni e dai suoi processi, dai suoi sistemi economici, giuridici ed educativi, dalle sue politiche nazionali e dalle sue relazioni estere. Si spera che affrontando il pregiudizio e il bigottismo nello sport, gli effetti si ripercuotano su tutti gli altri aspetti della società e che il razzismo, il fanatismo, la violenza, la xenofobia e l’intolleranza siano considerati un cartellino rosso.

Il razzismo nello sport è un problema complesso che non ha soluzioni facili. Tuttavia, è possibile adottare una serie di misure per prevenirlo ed affrontarlo ricordandoci che lo sport unisce persone di ogni estrazione culturale e di ogni estrazione sociale. Tutti sono uguali, uniti dall’amore per il gioco.

 

 

 

Tra questi accorgimenti dovremmo prestare maggiore attenzione all’aumento della diversità a tutti i livelli dello sport, dai partecipanti agli allenatori agli amministratori; l’aumento dell’accesso alle opportunità per i gruppi sottorappresentati; l’aumento dell’educazione e della consapevolezza del problema tra atleti, allenatori e tifosi. Nella fattispecie si può lavorare bene:

 

  • Adottando un linguaggio antirazzista e inclusivo.
  • Promuovendo la diversità e l’inclusione attraverso l’educazione e la formazione
  • Incoraggiando una comunicazione aperta e creare uno spazio sicuro per le discussioni.
  • Applicando politiche rigorose contro il razzismo e la discriminazione
  • Incoraggiando la segnalazione di qualsiasi episodio di razzismo.
  • Sfidando attivamente e coerentemente il razzismo come spettatori attivi, alleati e complici.
  • Sviluppando una strategia organizzativa antirazzista e comunicarla ampiamente.
  • Effettuando un rapporto sul divario retributivo per etnia, indipendentemente dalle dimensioni dell’organizzazione.
  • Affrontando i detrattori all’interno del proprio team o reparto.
  • Affrontando in modo proattivo e deciso le questioni legate alla razza.
  • Rivedendo e, se necessario, riprogettando le politiche e i processi – considerare le assunzioni, lo sviluppo professionale, gli appalti e le pensioni è un ottimo punto di partenza.
  • Incorporando l’uso di valutazioni d’impatto sulla parità e rivedere continuamente l’impatto di tali valutazioni.
  • Adottando un approccio antirazzista alle assunzioni e valutare come diversificare il proprio bacino di talenti.
  • Fornendo sostegno e risorse a coloro che sono stati colpiti dal razzismo.
  • Incoraggiando una rappresentanza diversificata nelle posizioni di comando
  • Celebrando la diversità in tutte le sue forme
  • Esaminando e valutare regolarmente i progressi compiuti verso un ambiente più inclusivo.

 

 

 

Sappiamo benissimo che la potenzialità dello sport per trasmettere valori umani riveste una sempre maggiore importanza. Non c’è un modo semplice per andare avanti se non continuiamo a smantellare il razzismo sistemico stesso. Si inizia guardando all’interno dei nostri pregiudizi razziali reimpostati all’interno dello sport (ma, ovviamente, vale per tutti gli ambiti).

 

Gli atleti sono di tutte le forme, dimensioni e colori. Ciò che mi fa sperare è che lo sport possa continuare a essere un modo per unificare a livello globale. Ma dobbiamo essere in grado di reclamare il modo in cui i corpi neri sono considerati nello sport, il che significa annullare una narrazione che è stata in vigore per 400 anni. Non sarà facile, ma è necessario. Meritiamo tutti la libertà di definirci come atleti alle proprie condizioni.

 

 

 

 

 

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